Nella rovente estate 2022, mentre la crisi politica in atto raddoppia quella geopolitica, ormai in scena (od oscena?) da febbraio, la figura del «Docente Esperto» divide gli addetti ai lavori scolastici perché, se da un lato sembra una qualifica accessoria e temporalmente differita (esisterà di fatto solo a partire dal 2032), dall’altro viene percepita come un’operazione inutile e quasi classista, che distoglie l’attenzione dai veri problemi della scuola.
Ma chi segue la politica italiana è abituato a errori prospettici e approcci innovativi che somigliano ad ardite figure retoriche: pur di non affrontare un problema alla radice e avviare riforme strutturali, si creano percorsi alternativi che in realtà servono solo a distrarre l’attenzione pubblica da un’incompetenza funzionale e congenita. Si creano resort di lusso a fianco ad ecomostri, si punta all’eccellenza del Made in Italy per renderlo più esportabile ma non si fa niente per proteggere, culturalmente ed economicamente, i grandi marchi storici che finiscono inevitabilmente in mani straniere.
Patria del Barocco per definizione, l’Italia è sempre più il trompe-l’oeil di sé stessa; aveva ragione Flaiano quando diceva che da noi la distanza più breve fra due punti non è la linea retta ma l’arabesco.
IL DOCENTE ESPERTO
L’articolo 39 del D.L. Aiuti bis, approvato dal Consiglio dei ministri il 4 agosto 2022, precisamente al Capo VI (Istruzione), in attesa di pubblicazione in Gazzetta, in tema di Docente Esperto fa riferimento a tutti i docenti di ruolo cui si richiedono nove anni di formazione articolati in tre cicli triennali, con l’obbligo di rimanere nella stessa istituzione scolastica per almeno tre anni dopo il conseguimento della qualifica.
I criteri di accesso, ancora da definire e rimessi alla contrattazione collettiva, tengono conto in fase di prima applicazione della media del punteggio ottenuto nei tre cicli consecutivi (per i quali, ovviamente, si deve ottenere una valutazione positiva) e, in caso di parità di punteggio, diventano prevalenti la permanenza nella struttura dove si è svolta la valutazione, l’esperienza professionale in toto e i titoli di studio conseguiti (coi relativi voti, se necessario).
Al termine dei nove anni, solo una porzione dell’intero corpo docente (8 mila unità all’anno circa), diventerà un Docente Esperto, maturando un assegno annuale di 5650 euro che si andrà a sommare al regolare stipendio: si tratta di 400 euro in più al mese per delle mansioni ancora da definire, ma che non dovrebbero comportare novità o skills differenti da quelle già in possesso da parte dei candidati.
Ci sarà un solo Docente Esperto per istituto e la novità (una delle ultime riforme del Governo Draghi) dovrebbe partire dal 2023/2024, anche se le prime reazioni da parte del mondo della scuola sono state un unanime coro di dissenso.
Si tratta, in realtà, di un’evoluzione dell’articolato del decreto legge 36 sulla formazione iniziale e sul reclutamento, che prevedeva corsi triennali di aggiornamento con valutazione finale e premio «una tantum» in denaro, ma non diceva nulla in merito a possibili formazioni da tre trienni; già il 30 maggio scorso, i lavoratori erano scesi in piazza per protestare contro quel decreto e, ad oggi, l’intero arco sindacale non lesina critiche a questa presunta novità, soprattutto Anief, che per via del suo presidente Pacifico ha dichiarato: «dopo le dimissioni del premier e lo scioglimento delle Camere, il Governo avrebbe dovuto svolgere solo i cosiddetti «affari correnti», invece travalica ampiamente i suoi poteri e con il decreto legge Aiuti bis si appresta a portare modifiche importanti al Pnrr».
Giannelli, a capo dell’Anp, sottolinea la situazione di migliaia di docenti sottopagati piuttosto che soffermarsi sugli 8000 annuali che dal 2032 andranno a ricoprire il ruolo di docente senior, criticando le tante promesse fatte (e ancora non mantenute) dal Governo durante il biennio della pandemia, ed evidenziando i veri problemi dell’Istruzione in Italia: la dispersione scolastica, implicita e esplicita, gli esiti delle prove INVALSI, ma soprattutto la carente preparazione di base degli alunni italiani, con le risorse a loro destinate che diminuiscono vertiginosamente nell’indifferenza generale.
Si è parlato a lungo, nell’ultimo anno, di quanto comporre classi di studenti con o senza mascherina potesse risultare discriminante, soprattutto per i primi, ed ora la figura del docente esperto sembra un attacco frontale (ed anche un po’ grossolano) all’inclusività degli insegnanti, che dovrebbero sentirsi uniti nella delicata fase di ripartenza educativa post-covid, e non scaglionati in corsie preferenziali che inevitabilmente porteranno a scontri e dissapori.
La priorità, com’è richiesto a più voci non solo dai sindacati ma dai docenti stessi, dovrebbe essere il rinnovo del contratto nazionale, oltre che dei massicci investimenti in termini di edilizia scolastica, e non un provvedimento elitario che riguardi una frazione di privilegiati, destinati ad essere guardati con sospetto per soli 400 euro in più in busta paga a fine mese.
Per non parlare poi del fatto che i tre cicli triennali di formazione, e il successivo e complesso meccanismo docimologico, non permettono di sapere in anticipo se si rientri o meno nel novero degli ottomila, con la conseguenza di vivere un decennio della propria vita professionale come un prolisso salto nel vuoto.
A farne le spese saranno, come sempre, i ragazzi che a fronte di pochi ed eroici professori in grado di personalizzarne il percorso educativo, svecchiando obsolete metodologie e tenendosi aggiornati più per iniziativa individuale che non per volontà sistemica, avranno a che fare con un corpo docente sottopagato e avvilito, incapace di adattare il proprio ruolo alla società digitale crescente, e con la bruciante sensazione di essere strumentalizzato da una classe politica la cui risposta più concreta al drammatico calo demografico in corso è stata finora un taglio proprio alle risorse dedicate all’istruzione.