La lunga storia dello sfruttamento occidentale dei paesi del Terzo e Quarto Mondo, in termini di materia prime e risorse alimentari, non sembra essersi interrotta ma solo rinnovata e, negli ultimi anni, pare aver cambiato padrone, visto che è la Cina a detenere il monopolio (diretto o mediato) di litio e terre rare, componenti fondamentali sia per la telefonia cellulare che per le batterie delle future auto elettriche.
Le miniere più importanti di queste materie prime (o sarebbe più corretto chiamarle primarie) sono in Australia, Sudamerica e Africa ma Pechino (che ne è comunque il secondo produttore mondiale) si è assicurata i diritti di sfruttamento fino al 65% del mercato globale.
L’inospitale Patagonia invece, gerbido ventre di quell’Argentina in crisi economica da decenni, si è rivelato ricco di combustibili fossili (seconda riserva al mondo di gas e quarta di petrolio), destando l’interesse delle maggiori potenze mondiali, nonostante le discutibili tecniche d’estrazione, i rischi sismico-ambientali e i cortocircuiti con le popolazioni indigene, ma in uno scenario geopolitico così variabile, in nome dell’approvvigionamento energetico, la questione ambientale viene derubricata alla voce «varie ed eventuali» dell’assemblea di condominio internazionale.
LITIOCRAZIA
Nonostante la parola definitiva verrà pronunciata solo in Autunno dalla commissione, in un serrato dibattito di fine giugno tenutosi in Lussemburgo, sia il Parlamento che il Consiglio europei hanno stabilito che entro il 2035 non potranno più essere vendute automobili diesel o a benzina: si tratta di una rivoluzione paragonabile all’automazione industriale o alla diffusione dei trasporti su rotaia o gomma, ma con delle conseguenze globali più complesse e stratificate.
La tecnologia-chiave per le auto elettriche, quella delle batterie a ioni di litio, è in mano alla Cina che ne ha acquisito i diritti di sfruttamento delle relative miniere un po’ in tutto il mondo (pur essendone un enorme produttore) fino al 65% del mercato internazionale, ma il restante 35%, in mano ai sud-coreani di Samsung e Lg, che ne curano la raffinazione delle lamine argentate e semiliquide, deve comunque utilizzare litio cinese o importato dai cinesi; la Cina detiene anche il software e i microchip specifici per l’auto (terre rare come cobalto, lutezio, neodimio e via dicendo), insieme a una piccola percentuale coreana e taiwanese, ma sempre con materia prima controllata da Pechino.
La parola «monopolio» si compone a caratteri cubitali sul cartellone economico del futuro prossimo e se l’industria automobilistica parlerà cinese sarà anche perché ovunque gli uomini di Pechino hanno offerto fondi e assistenza anche in altri settori (vedi l’agricoltura) spesso carenti, pur di avere l’esclusiva sul litio locale; non a caso il suo prezzo nell’ultimo anno è levitato da 6000 a 21mila dollari la tonnellata.
In Italia la situazione è critica anche per il «retraining» delle migliaia di bravissimi meccanici esperti in motori a scoppio che dovranno riconvertirsi in fretta all’elettrico, senza apposite scuole di formazione e con un welfare incapace di tutelare dei lavoratori che si trovino nel pieno di una simile svolta; si rischiano conseguenze sociali e culturali pesantissime.
La risposta italiana, ma anche tedesca e di altri paesi europei, all’egemonia cinese è il possibile utilizzo dei biocarburanti (ottenuti da scarti vegetali) da miscelare a benzina e diesel tradizionali, che producono Co2 ma in quantitativi decisamente inferiori rispetto ai minerali fossili, questo sempre che la conversione all’elettrico sia ancora negoziabile. O prorogabile.
IN PATAGONIA (SENZA CHATWIN)
Col poco rassicurante nome di Vaca Muerta, la regione patagonica di Neuquén, un enorme giacimento non convenzionale di 30 000 chilometri dall’aspetto quasi marziano, rappresenta un’insperata risorsa per il Governo argentino, e uno degli scenari energetici più interessanti per tutte le superpotenze mondiali.
Liquefazione del gas ed estrazione di petrolio hanno trasformato Aňelo da un ammasso di prefabbricati a una cittadina di ottomila abitanti, quasi esclusivamente operai, mentre il brullo territorio viene continuamente solcato da camioncini e fuoristrada che trasportano materiale da costruzione, sabbia di silice e nuova manodopera. Il sogno del Governo Centrale argentino è quello di diventare uno dei maggiori esportatori mondiali di greggio e gas (rievocando i fasti di uno stato definito un tempo «il granaio del mondo») ma per poterlo fare occorre potenziare le infrastrutture e creare un gasdotto in grado di convogliare la materia ed esportarla, altrimenti si rischia di disattendere l’obiettivo concordato con l’Europa di poter fornire energia a livelli significativi entro il 2024.
Ma quali sono le contrindicazioni del modello «Vaca Muerta»?
- Il «fracking», o perforazione idraulica, è una tecnica (inventata in Usa nel 1947) che permette di estrarre petrolio e gas non convenzionali dalla roccia di scisto: ovviamente si tratta di un procedimento non in linea né con la transizione ecologica né con l’accordo di Parigi, non solo perché inquina (col «cutting», fango di perforazione, il «flowback», o fluido di ritorno, o coi fondi di serbatoi, ma anche coi metalli pesanti, come radio e radon), ma anche perché i residui vengono riversati in discariche a cielo aperto che contaminano le falde acquifere superficiali;
- L’incremento dei procedimenti estrattivi ha generato inediti fenomeni sismici, alcuni di magnitudo più che rilevante;
- Come per le monocolture di quinoa e avocado, sono gli autoctoni a pagare il prezzo più alto e in questo caso è la comunità indigena Mapuche a lamentare l’inquinamento di falde, aria e fiumi, che sta mettendo in grave rischio non solo la loro incolumità ma anche la pastorizia di sussistenza che praticano da secoli in quel bacino inospitale.
Ritorno ai combustibili fossili o conversione all’elettrico, si parla sempre troppo poco di smaltimento, e gli alibi (bellici e non) impediscono progettazioni a lungo termine, le uniche realmente salvifiche per l’ambiente. Finché si cercherà di coniugare la logica di mercato a quella ambientalista, si ripeterà il paradosso delle culture classiche: quando l’impossibile e il necessario coincidono si inaugura il tragico.