Dall’epoca che precede la rivoluzione industriale, 19 dei 20 anni più caldi mai registrati si sono verificati dal 2000, e in particolare il 2020 è stato l’anno più rovente in assoluto: al di là delle storiche, e provocatorie, sparate di Trump e delle sempre meno rilevanti tesi dei negazionisti, che ormai hanno un peso solo politico, l’evidenza scientifica dimostra che il mutamento climatico è dovuto all’incremento delle emissioni di gas serra (GHG) prodotte dagli esseri umani.
Dalla fine dell’Ottocento, la temperatura media globale è aumentata di circa un grado e la comunità scientifica è coralmente concorde sulla necessità di mantenere l’incremento del riscaldamento planetario al di sotto dei due gradi centigradi, per evitare incendi boschivi, perdita della biodiversità, diminuzione dei raccolti e grossi problemi di salute per le persone; nonostante alcuni filosofi e opinionisti si affannino nel dimostrare il peso relativo che l’Europa avrebbe sia nel surriscaldamento globale che nell’emissione delle plastiche, l’UE è di fatto il terzo produttore mondiale di gas serra dopo Cina e Usa, ed è per questo che nell’accordo di Parigi del 2015 (di cui tutti i paesi comunitari sono stati firmatari), si è impegnata a ridurre le emissioni di GHG almeno del 40% entro il 2030, rispetto ai valori del 1990, e nel 2021 la percentuale è stata aggiornata al 55%, con l’obiettivo finale (per molti utopistico) di raggiungere zero emissioni nette entro il 2050.
Il Green Deal europeo, supportato dalla legislazione completa del pacchetto «Pronti per il 55», punta alla revisione della normativa vigente in tema di emissioni ed energia, per raggiungere un’economia circolare entro il 2050, proteggere gli impollinatori e la biodiversità, creare un sistema alimentare sostenibile ed ottenere la neutralità climatica.
Le parole d’ordine sono: decarbonizzare (limitando la delocalizzazione di aziende che migrano verso paesi con norme meno rigorose sulle emissioni di gas serra); regolamentare la deforestazione e il cambio di destinazione d’uso dei terreni per tutelare il potere di assorbimento delle foreste; incrementare al 32% (entro il 2030) la quota complessiva di energia rinnovabile; migliorare, sempre entro il 2030, del 32,5% l’efficienza energetica.
Nel frattempo, se al di là della pianificazione non avverranno cambiamenti concreti, secondo stime tutt’altro che catastrofiste, entro il 2100 potremmo raggiungere un incremento climatico fra i 3 e i 3,5 gradi, con emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto in continuo aumento, uno scioglimento del ghiaccio marino e della calotta glaciale artica a ritmi vertiginosi (ogni dieci anni la banchina artica si riduce in estate del 12%), col conseguente innalzamento del livello del mare e l’inacidimento dell’acqua (+ 26% rispetto all’inizio dell’era industriale).
«Green is the colour» quindi, parafrasando il celebre brano dei Pink Floyd, ma il punto interrogativo nel titolo di questo articolo si riferisce alla pastoie burocratiche (a tratti ideologiche) e ai vincoli dettati dai colossali interessi economici in gioco, che finora stanno impedendo di fatto al Green deal di spiegare le ali: riuscirà una politica dapprima commissariata dall’economia e poi bullizzata dalla tecnica, a riacquisire quella primaria funzione decisionale che ogni ordinamento costituzionale le attribuisce, guidando e non assecondando i mutamenti in corso?
FUSIONE «ON THE ROCKS»
Il 3 luglio scorso una parte del ghiacciaio della Marmolada si è staccato travolgendo a 300 chilometri orari svariate cordate di alpinisti, un evento improvviso e (in)atteso, dato probabilmente da una fusione intensa che ha riversato acqua nei crepacci, aumentando il peso della massa in bilico e favorendone il collasso.
Evento improvviso ma non del tutto imprevedibile, visto che dalla fine dell’Ottocento il ghiacciaio dolomitico ha visto la propria fronte arretrare di 650 metri e la propria superficie complessiva diminuire del 70%, per non parlare del volume, ridottosi del 30% nel solo decennio 2004/2014; non si tratta di un episodio isolato, vista la recente evacuazione in Val Ferret a causa di un seracco che si muove alla velocità di un metro al giorno, o i fenomeni di scioglimento sull’Adamello, al Morterash o sul ghiacciaio dei Forni, ma il caso della Marmolada è particolare poiché non è avvenuto, come gli altri, in pianura, e perché a generarlo sono state una serie di concause.
C’è stato un prolungato periodo di siccità (i primi 5 mesi del 2022 sono stati i più «dry» degli ultimi 60 anni), è piovuto poco ed è nevicato il 70% in meno rispetto alle medie stagionali, senza dimenticare che, inquadrando il fenomeno nell’ottica del surriscaldamento globale, le montagne si scaldano il doppio rispetto ad altre aree (come le regioni polari) per la retroazione ghiaccio-albedo, e cioè la roccia scura che, non ammantata di neve, attira maggiormente la luce solare, incrementando la fusione del ghiaccio.
Tra 25/30 anni, prevedono climatologi e glaciologi, il ghiacciaio della Marmolada potrebbe sparire del tutto, e con lui la memoria storica del territorio che lo include, ma al di là dei fattori storico-culturali, lo scioglimento dei ghiacciai alpini potrebbe portare a disastrose e trasversali conseguenze:
- Emergenza idrica;
- Il rischio di scongelamento del permafrost, che ha già provocato diversi crolli;
- Grossi problemi all’agricoltura, e in particolare alle colture di mais e riso che richiedono un ingente consumo d’acqua e sono molto diffuse in Pianura Padana;
- Propagazione di incendi, che in Italia sono soprattutto montani;
- La formazione di laghetti glaciali dagli argini instabili, a rischio di esondazione per le comunità a valle;
- La biodiversità: ci sono specie endemiche sensibili ai cambiamenti climatici improvvisi e lo scioglimento dei ghiacciai potrebbe portare all’incontro di animali che non avevano mai condiviso lo stesso habitat e, nella migrazione globale verso quote più elevate, all’alienazione di quelli spossessati degli ambienti estremi dove già vivevano, per non parlare dello «sfasamento» di specie come la pernice bianca che d’Inverno si riveste di bianco per sfuggire ai predatori e che ora lo diviene in autunno, perdendo il proprio potere mimetico in assenza di neve, e rendendosi così visibile e vulnerabile.
Questi e altri fattori sono stati evidenziati nel secondo volume del sesto rapporto dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), trasformando la regione mediterranea in un monitoratissimo sorvegliato speciale in tema di rischi ambientali, ed anche se non sarà facile modificare un intero sistema socio-economico, dall’energia alla produzione di cibo, se non avverrà qualcosa di determinante entro 20-30 anni, la parola irreversibile potrebbe affiorare alle labbra anche dei più inguaribili ottimisti.