Nonostante negli ultimi anni ci sia stato un evidente miglioramento, il fenomeno della dispersione scolastica è ancora un problema molto serio in Italia, che non solo denuncia un crollo di fiducia da parte della società civile nei confronti delle istituzioni didattiche ma evidenzia anche quanto il progresso digitale (in generale e all’interno delle scuole) non abbia saputo veicolare il giusto valore dell’istruzione nel percorso formativo dei ragazzi.
Ad aggravare dei dati già di per sé preoccupanti è sopraggiunta la pandemia, con una didattica a distanza da rodare e un concetto di educazione che se da un lato riprende la frange più avanzate della pedagogia sperimentale (prepararsi a casa anche grazie al facile accesso digitale alle informazioni, per poi cooperare in classe), dall’altro presuppone ingenuamente una responsabilità individuale che la maggior parte degli studenti italiani non ha: anche perché tale responsabilità non è innata ma va a sua volta formata attraverso una didattica olistica il cui insieme non è mai soltanto la somma delle parti, e un’idea di futuro che bypassi il nichilismo generazionale (e tutte le forme di devianza ad esso correlato) che una classe politica spesso miope nelle proprie analisi, archivia sbrigativamente nella cronaca senza riuscire a capirne l’enorme portata sociale.
FENOMENOLOGIA DELLA DISPERSIONE SCOLASTICA
È noto quanto la dispersione scolastica interessi maggiormente le scuole secondarie di secondo grado, in particolar modo nel primo anno o nel passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori, ma è interessante rilevare quanto il processo riguardi maggiormente i maschi e i discenti stranieri, con una percentuale di abbandono addirittura doppia per i ragazzi nati fuori dall’Italia, rispetto agli stranieri di seconda generazione.
La sperequazione fra Nord e Sud si fa sentire anche in questo caso, visto che al Meridione e nelle isole la propensione all’abbandono è decisamente più marcata, ma un netto divario esiste anche fra le tipologie di scuole: la dispersione, per gli studenti degli istituti tecnici e professionali, è più del doppio rispetto ai licei (fra i quali il classico totalizza la percentuale più bassa e l’artistico la più alta).
Ma se la statistica fornisce una cornice a volte apparentemente disomogenea, sta alle scienze sociali incrociare le informazioni, capire l’eziologia del problema e individuare i minimi comuni denominatori che forniscano possibili soluzioni a uno scenario dinamico complesso.
Tamponare e prevenire sono due posizioni concettuali inconciliabili perché fanno riferimento a orizzonti temporali differenti.
È chiaro che il ritardo scolastico e le bocciature incentivino l’abbandono, così come è evidente che in un contesto socioculturale elevato la dispersione diminuisca drasticamente, mentre è meno apodittico che in un contesto con un alto tasso di disoccupazione si rinunci con più facilità a un’adeguata istruzione, perché questo vuol dire che invece di puntare al riscatto culturale, e professionale, i figli di genitori in cerca di occupazione si adeguano a una realtà mortificante, sancendo di fatto una crisi morale oltre che formativa.
Ma quali sono le possibili soluzioni?
Intanto bisognerebbe aver maggior cura nella composizione e nella gestione delle classi, incrementare laboratori didattici e innovazione digitale, ma anche investire in un’edilizia scolastica di qualità, nella formazione dei docenti, nel tempo pieno e nelle attività extrascolastiche, e puntare alla solidità del patto scuola/famiglia.
Secondo una recente ricerca (2022) di Almadiploma, una parte di diplomati ha scelto di non proseguire la propria formazione iscrivendosi all’università, oppure ha abbandonato l’Ateneo scelto (5,7% al primo e 8,7% al terzo anno) o ha cambiato il percorso di studio (9% a un anno e 12,5% a tre anni); se da un lato le ragioni di tali rinunce vanno ricercate nell’insoddisfazione verso le discipline o università scelte rispetto alle aspettative iniziali, si attesta al 70% la quota di chi ha dichiarato di aver abbandonato l’università a causa della pandemia.
Eppure, a invertire questa tendenza, proprio nel 2020, sono stati i tantissimi diplomati (soprattutto degli istituti professionali) che, non potendo indirizzarsi subito verso il mondo del lavoro, hanno scelto di frequentare l’università, controbilanciando il generale crollo di fiducia accademico da parte degli istituti secondari di secondo grado.
«METTERE AL CENTRO I PIÚ FRAGILI»
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dopo una prima fase dedicata all’edilizia scolastica e agli Avvisi per gli Enti Locali, mette a disposizione un fondo da 1,5 miliardi contro la dispersione e le povertà educative, teso anche a superare i divari territoriali, e proprio in questi giorni il ministro Patrizio Bianchi ha firmato la prima tranche di risorse, 500 milioni che serviranno a finanziare 3198 scuole secondarie, di primo e secondo grado (alla Lombardia, ad esempio, andranno 57 661 517, 85 euro da suddividere fra 384 istituti regionali).
Il decreto, in via di registrazione, sarà disponibile nei prossimi giorni, insieme all’elenco delle scuole che riceveranno le risorse, per un finanziamento che il Ministro dell’Istruzione ritiene fondamentale, insieme alla riforma per l’Orientamento e a quella degli Istituti Tecnici (in corso d’opera), per «mettere al centro i più fragili».
La seconda tranche promuoverà l’acquisizione di un diploma per i giovani (fra i 18 e i 24 anni) che hanno abbandonato precocemente gli studi, mentre la terza servirà per attivare progetti di potenziamento delle competenze di base per superare i divari territoriali e rendere più competitive le aree periferiche delle città, e del Paese in generale.
Molto in voga nel lessico di quest’ultimo periodo, sia che afferisca a risorse idriche, urbane o economiche, la parola «dispersione» fotografa meglio di qualsiasi istantanea una Nazione con un’inflazione da record (mai così alta dal 1985), con una burocrazia paludosa e una giustizia da rivedere, una sfiducia politica ben rappresentata dall’ultimo flop referendario e soprattutto una scuola che dovrà spendere bene i soldi a sua disposizione se vorrà riallacciare i contatti coi giovani e i più giovani, alla disperata ricerca di discutibili sostituti educativi sui social media: non conoscere Dante può non essere ostativo per accedere a Tik Tok, ma rappresenta il fallimento di decenni di colpi (bassi e dall’alto) inferti alla cultura da parte di una classe dirigente più dedita alla «culture cancel» che alla «cancel culture».