Presentato al Sundance Film Festival, e in esclusiva dal 17 giugno sulla piattaforma Mubi, «Pleasure» è il primo lungometraggio della regista trentasettenne Ninja Thyberg, che analizza da un inedito «point of view» femminile la fenomenologia dell’industria porno, raccontando l’ascesa (discesa) della svedese Linnéa (in arte Bella Cherry) al pantheon hard-core di Los Angeles.
Film perturbante, in alcuni passaggi fin troppo esplicito (abbondano i nudi e persino le erezioni ma non si vedono le penetrazioni), ma anche necessario e a suo modo lirico nel raccontare forse il più grande rimosso collettivo di fini e inizio Millennio, visto che pur continuando a macinare miliardi, e nonostante il passaggio dai dvd ai contenuti gratuiti sulla Rete, l’argomento resta un tabù snobbato dalla cultura ufficiale, se non nelle sue forme più estreme, confinanti col Bdsm e con la cronaca nera.
Eppure, proprio la gratuità di un’offerta suddivisa in «categorie» (infinite come i gironi infernali) e lo sdoganamento della professione pornostar (basta pensare al caso Sasha Grey), dovrebbero far riflettere sia sull’apprendistato erotico dei nuovi adolescenti, orfani della spezia più saporita di ogni trasgressione, e cioè il mistero, ma anche sull’evidente ribaltamento, avvenuto soprattutto dal 2000 a oggi, di una realtà che imita la pornografia, laddove sin dai suoi albori era quest’ultima a ricalcare gli stereotipi più dozzinali per ricreare la prurigine del consumatore medio.
D’altronde la famosa regola 34 di Internet non enuncia: «Se una cosa esiste, allora ne esiste anche la versione porno»?
PRELIMINARI
Dopo aver filmato un cortometraggio dall’omonimo titolo nel 2013, Ninja Thyberg, studiosa gender, attivista anti-pornografia d’abord, e poi appassionata del movimento (al punto da dedicargli un saggio), è volata in California e per quattro anni ha fatto ricerche, intervistato e conquistato la fiducia degli addetti al mestiere, fino a girare «Pleasure» nel 2018, anche se la pellicola è stata distribuita solo nel 2021.
La storia è quella della diciannovenne Linnéa, che da Göteborg vola fino alla città delle stelle per definizione per diventare «la più grande pornostar di tutti i tempi»; c’è il nome d’arte (Bella Cherry) con relativo tatuaggio, ci sono la bellezza e l’ambizione, il giusto grado d’innocenza da profanare, ma soprattutto vibra sottotraccia il proteiforme muso del superamento del limite, che poco ha a che vedere col Capitalismo in senso stretto.
Bella verrà adottata, durante uno shooting fotografico, da una disinibita starlette che la ospiterà a casa sua insieme ad altre mestieranti del porno, lontane però dal vertice dell’intrattenimento per adulti, ma punterà a diventare una delle protégé di Mark Spiegel (che compare nel film nella parte di sé stesso), disposta a tutto pur di lasciarsi alle spalle una Svezia deludente e chiusa, complessata e paranoica.
Mimando un rapporto saffico durante gli AVN di Las Vegas (gli Oscar hard-core) con un’algida e bellissima modella dell’agenzia di cui vorrebbe far parte, subendo le robuste attenzioni di due mastini in una pellicola «rough sex», e infine accettando di comparire in una scena interraziale, la giovane Linnéa si varerà nell’Olimpo pornografico, ma per farlo sarà costretta a mentire alla famiglia e a tradire un’amica.
Il finale dischiude (o forse no) una possibile redenzione, visto che nel Porno tutto è circolare e che in quanto «genere» per definizione, esso si costruisce su ferree regole androcentriche, ma la particolarità di «Pleasure» è proprio quella di rovesciare la macchina da presa sul voyeur, ricordandogli che la sessualità non è un piano-sequenza, né l’emotività un inconveniente da eliminare in fase di montaggio.
MAKING OF
«Business or pleasure?» chiede l’inserviente alla Dogana e l’esordiente Sofia Kappel, dopo qualche secondo di indecisione, risponde «Pleasure». Basterebbe questa battuta o l’iniziale nero con sonoro di mugugni erotici, spanking o gutturali offese, per «entrare» ne mondo di «Pleasure», un mondo fatto di crudeli primi piani su genitali, epilazioni, lavande vaginali e plug-in cuneiformi, eppure dietro la denuncia al maschilismo imperante, che pretende non solo di assecondare ma di predire i gusti sessuali di miliardi di persone e, dietro l’ombra del Capitalismo che vi aderisce come un guanto (o un condom, visto l’argomento), la regista svedese ha l’ambizione di raccontare qualcos’altro.
Cosa succede quando un successo così facile da bruciare la strada per raggiungerlo fa coincidere la popolarità con l’oscenità?
Quanto si è disposti a soffrire per (il) piacere?
«Pleasure» non è solo una critica alle strutture di potere del mondo dell’intrattenimento per adulti, e nemmeno un facile rovesciamento di prospettiva che introduca una chiave interpretativa femminile al fenomeno hard-core, ma una metafora sulla pervasività fraudolenta della Rete e dei social media.
Per diventare una «Spiegel Girl», Bella dovrà pompare a dismisura i propri social e, per ottenere più followers, eliminare ogni paletto, unendo alla bellezza virginale la perversione più lubrica e deliberata: in una scena di strap-on si vendicherà della partner che si è rifiutata di praticarle sesso orale, perché sporca o addirittura affetta da candida, penetrandola selvaggiamente con un fallo in lattice, e il suo volto in quel momento è una maschera di violenza e disperazione (simile, cinematograficamente parlando, al volto ossessivo di Fassbender in «Shame»).
La pantomima, riproposta più volte nel film, sui moduli da firmare per il consenso (fino alle safeword da pronunciare durante il Bdsm), ci ricorda il consenso che doniamo passivamente a centinaia di pagine web sulla privacy o sulla sicurezza dei dati personali, consenso senza il quale non saremmo ammessi nelle equivoche agorà della democrazia virtuale, consenso senza il quale Bella sarebbe padrona di tornarsene in Svezia, e durante la scena del rough sex (sesso estremo, violento) il regista è molto chiaro in tal senso: «sei libera di fermarti qui ma se non porti a termine la performance l’hai fatto gratis».
Non c’è vera scelta se l’unica scelta è l’accettazione incondizionata. Se è gratis, la merce in vendita sei tu.
Un altro aspetto (in)volontariamente evocato da «Pleasure» è l’anima nera della Rete, che sopravvive e specula sul politicamente corretto: ciò che si condanna pubblicamente aumenta la frizione erotica, così al nero con cui sta per eseguire una scena di doppia anale Linnéa chiede: «Ma non è razzista?» sentendosi rispondere: «certo che è razzista. È estremo perché è razzista.»
Nonostante Ninja Thyberg abbia promosso lunghi casting per reclutare la giusta troupe, alla fine ha optato per una larga maggioranza di attori porno, che si sono rivelati decisamente più preparati e credibili dei corrispettivi «normali» (e non vergognatevi se ne riconoscerete qualcuno, a me è successo), ma anche se i contenuti di «Pleasure» non sono distanti da opere come «Nymphomaniac» o «Boogie Nights», o dalla filosofia alla base delle pasoliniane 120 giornate di Salò, ed anche se la parabola di Bella/Linnéa è la stessa di «The Neon Demon» o «La La Land», versione hot, la sua originalità risiede nell’aver puntato lo sguardo sullo sguardo.
Nell’era della condivisione selvaggia, in cui la popolarità ha sostituito al pollice verso del Circo quello del like, la realtà è pornografica e non c’è categoria che lo sguardo non penetri, masticando ottusamente nuove immagini, nuove copule, nuovi crimini, in una bulimia esponenziale che non intrattiene ma obnubila.
Le divinità del Porno (acefale se maschili) esistono solo se le guardi, come ognuno di noi.