La scuola «affettuosa» di Bianchi contro la violenza minorile

da | Giu 10, 2022 | SUI BANCHI DI SCUOLA

Pochi giorni fa, invitato dall’Istituto Statale Istruzione Superiore Giulio Natta per la chiusura dell’anno scolastico 2020/2021, Patrizio Bianchi, dopo il saluto istituzionale alla comunità territoriale, e più in generale a tutte le comunità scolastiche italiane (e dopo l’inno di Mameli), ha affrontato varie tematiche legate all’istruzione e non solo.

Con la consueta bonomia e fiducia nel futuro, il Ministro ha nuovamente evocato il mantra dell’inclusività, ricordando i 27 000 ragazzi ucraini accolti dalle nostre scuole, parlando di tecnologia e riforme, mascherine e operatività digitale, ribadendo la sua concezione di scuola «totale», interconnessa col territorio e con le famiglie, in grado di fare da ponte fra società e istituzioni e di disegnare un orizzonte nient’affatto angusto o distopico.

Eppure, poco prima (2 giugno) e lo stesso giorno del suo intervento a Bergamo (6 giugno), in diverse città italiane, con interpreti e motivazioni differenti, ragazzi e studenti minorenni si sono resi protagonisti di episodi di violenza inaudita, arrivando non solo a destare l’attenzione dei mass media nazionali, ma anche a trasformare il macabro pointillisme della cronaca in un fenomeno sociale di rilevanza storico-politica.

Può la scuola «affettuosa» riuscire ad abbracciare tutto questo?

HANNO FATTO UN DESERTO E LA CHIAMANO PACE

Con quest’affermazione di Tacito («hanno fatto un deserto e la chiamano pace») e chiosando con la sua: «la pace è la pace e non è il risultato della guerra», il portavoce di Viale Trastevere ha voluto intendere che il cessare delle ostilità può e deve essere perseguito con ogni mezzo, lecito e ragionevole s’intende, ma che la pace non è un obiettivo quanto piuttosto un punto di partenza per una ricostruzione innanzitutto morale.

Il professore (Bianchi è stato anche docente e preside) ha parlato alla platea di Bergamo, città simbolo del lockdown, delle tre riforme in divenire:

  1. La riforma dell’istruzione tecnica e professionale;
  2. La riforma degli istituti tecnici superiori, che hanno un forte impatto sul tessuto produttivo e che sono ancora poco conosciuti;
  3. La riforma dell’orientamento, fondamentale tramite per accompagnare ragazze e ragazzi nel proprio percorso.

Prendendo in prestito l’abusato tema delle mascherine, egli ha poi parlato di possibile rimozione dell’obbligo solo nella piena sicurezza del nostro vicino, visto che la democrazia è la garanzia non dei nostri diritti ma di quelli di chi ci è a fianco, e che nemmeno conosciamo; il nucleo centrale del suo discorso è stato però il riconoscere alla scuola 2.0 un’importante funzione formativa a livello comunitario, a maggior ragione oggi che le informazioni in senso stretto sono facilmente reperibili grazie alla Rete o a Wikipedia.

Parlando in una scuola intitolata a Giulio Natta, Nobel per la chimica nel 1963, il ministro ha poi celebrato l’importante tradizione chimica italiana, anche in funzione della possibile scoperta di nuovi materiali e della necessaria spinta all’innovazione, anche e soprattutto tramite gli istituti tecnici professionali, da lui definiti «il luogo di punta della trasformazione, non solo della scuola ma del Paese tutto».

Sorgerebbe la considerazione che, se la pace in sé sia un deserto e non possa rappresentare un obiettivo finale, anche fare della profilassi sanitaria l’unica norma regolatrice dell’intero sistema nazionale, potrebbe non essere stata la scelta più lungimirante.

«Questa salute edifica un carcere», scriveva il poeta francese Paul Éluard.

DALL’ULTRAVIOLENZA ALLA METAVIOLENZA

Lo scorso 2 giugno, dopo essersi dati appuntamento su Tik Tok, titolando l’evento «L’Africa a Peschiera del Garda», 2000 ragazzi (quasi tutti minorenni di origine nordafricana) hanno «occupato» la cittadina veneta in due ondate, la seconda delle quali ha prodotto risse, fastidi ai turisti, scontri con la polizia e molestie a 5 ragazze sul treno che da Gardaland stava riportandole a Milano. L’intento dell’evento era quello di riunirsi per ascoltare su una spiaggia libera un concerto trap, ma le cose hanno preso decisamente un’altra piega.

Due le frasi al penoso occhiello della giornata: la prima, colta dallo stesso sindaco di Peschiera: «Siamo venuti a riconquistare Peschiera. Questo è territorio nostro, l’Africa deve venire qui.»; la seconda pronunciata dai molestatori all’indirizzo delle spaventate coetanee, due delle quali prive di sensi e derise per questo: «donne bianche, che ci fate qui, privilegiate».

A distanza di soli quattro giorni, a Bologna i Carabinieri hanno segnalato alla Procura quattro ragazzi fra i 12 e i 13 anni (già precedentemente attenzionati in quanto probabili membri di una baby gang), rei di aver aggredito e derubato dei coetanei, colpevoli di aver creato una chat contro il bullismo; a Napoli, nella stessa giornata, una ragazza è finita in ospedale con una prognosi di 14 giorni dopo essere stata aggredita, e a Pordenone un 19enne è stato accoltellato per una rapina andata storta, o forse per una spedizione punitiva.

Sarebbe facile strumentalizzare i fatti di Peschiera puntando l’indice contro una politica troppo morbida sull’immigrazione, e contro una sinistra così europeista da voltare le spalle agli interessi nazionali, ma gli analisti più attenti sanno che per molti ragazzi nordafricani immigrati in Italia o per i figli di immigrati di seconda generazione, l’integrazione non è mai avvenuta e la sperequazione, non fra Nord e Sud ma fra Centro e Periferia, ha trasformato dei potenziali alunni in Neet (Not Engaged in Education, Employment or Training) o in bassa manovalanza per il crimine.

I minimi (e bassi) comuni denominatori di questi episodi, tutt’altro che episodici, sono:

  1. La giovane, se non giovanissima, età di vittime e carnefici;
  2. Il totale disprezzo rivolto alle autorità, misto a un senso d’impunità sistemica dato più dalla dissociazione che dall’arroganza;
  3. La cassa di risonanza dei social media, ormai prologo, epilogo e memoria (con o senza damnatio) di ogni bravata.

La violenza degli anni di piombo, paramilitare ed extraparlamentare, arruolava giovani preparati culturalmente, che sceglievano di diventare rivoluzionari, a volte cadendo in equivoci generazionali (e ideologismi) che la Storia avrebbe condannato, quella del punk canalizzava nella musica e nella distruzione delle icone il disagio intergenerazionale, mentre l’ultraviolenza di Arancia Meccanica trasformava in stile, musicale e letterario, il rifiuto di un Bene imposto dall’alto, celebrando l’imperio, anche (auto)distruttivo del libero arbitrio (paradossalmente, sotto questo punto di vista, l’Alex di Burgess/Kubrick diviene un personaggio quasi mistico).

La meta-violenza degli attuali minorenni è l’icastica rappresentazione di un Vuoto prospettico che le istituzioni faticano a contenere perché i propri protocolli non lo concepiscono, né raccontano, un disagio liquido come i vettori multimediali che lo veicolano e assorbono, uno strumento che ha divorato il fine da così tanto tempo che ne resta solo la candela di Alice nel Paese delle Meraviglie («chissà com’è la fiamma della candela da spenta …»).

Pur rispettando lo zelo riformistico di Bianchi and Co, la discriminante fra le varie forme di violenza prima evocate è la cultura, poiché solo lei (ma di cultura umanistica si sta parlando e non di tecnica) può generare la catarsi e indurre il sospetto, in chi si arma contro il prossimo o sé stesso, che possa esistere qualcos’altro.

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