Recente trionfatore a Cannes col suo «Triangle of Sadness», che replica la Palma d’Oro già vinta nel 2017 con lo stralunato «The Square», Ruben Östlund, svedese come il Bergman che in qualche modo ricalca, pur non spingendo la sua introspezione psicologica così in alto (o in basso, a seconda dell’angolazione), aveva già incantato il festival della Costa Azzurra incassando il prestigioso Un Certain Regard col lungometraggio «Forza Maggiore» (2014).
Primo tassello di un’ideale trilogia, che avrà il suo seguito con The Square e il finale proprio in The Triangle of Sadness, Forza Maggiore non si limita a smascherare i moderni stereotipi sulla coppia felice e perfettamente amalgamata, ma mette in discussione gli inconfessabili archetipi su cui essa si fonda, al di là del politicamente corretto e della rivoluzione Lgbtq+.
Non si tratta di un semplice attacco alla mascolinità, come in molti hanno desunto dal primo strato dell’opera, ma di una feroce critica ai ruoli sociali preimposti, ancor più icastica se considerata la particolare attenzione rivolta dalla cultura scandinava alle politiche familiari.
In ogni caso, non si parla di un semplice espediente narrativo volto a rovesciare lo sguardo dello spettatore, ma di istituire una vera e propria morfologia del disastro che distrugga e ricomponga la tassonomia dei valori umani con cui siamo soliti confrontarci: questa è l’ambizione del cinema di Ruben Östlund.
TRAMA
Ebba (Lisa Loven Kongsli) e Tomas (Johannes Bah Kuhnke) sono una coppia svedese di estrazione medio-borghese che decide di passare una settimana di vacanza in un residence di lusso situato fra le Alpi Francesi e Sudtirolesi, portando con sé i propri figli per farli sciare, e rilassandosi visto che di recente «lui ha lavorato veramente troppo».
Fra paesaggi mozzafiato, iconiche foto di famiglia e gustosi siparietti in cui i coniugi si lavano all’unisono i denti con lo spazzolino elettrico (ironia figurativa à la Anderson), tutto sembra andare secondo programma fin quando, il secondo giorno, una valanga apparentemente controllata non si abbatte sulla terrazza panoramica dove la famiglia, insieme ad altri avventori, sta consumando il pranzo: mentre Ebba «protegge i cuccioli», Tomas fugge urlando e la scena viene fedelmente registrata all’iPhone che l’uomo afferra insieme ai guanti, prima di abbandonare a sé stessi i propri cari.
L’iniziale rifiuto di Tomas ad ammettere quanto accaduto (sembra che il regista si sia ispirato alla reticenza del comandante Schettino non appena avvenuto il disastro della Concordia) spinge Ebba a raccontare l’episodio a due coppie di amici e, mentre nella prima narrazione si limiterà ad esporre i fatti, che non corrisponderanno alla versione del marito, nella seconda si spingerà ad accusarlo esplicitamente di vigliaccheria, mostrando a tutti il video incriminato.
Messo in discussione come uomo e padre, Tomas si chiuderà in un silenzio preoccupante fino ad esplodere in una vera e propria crisi isterica durante la quale confesserà debolezze e adulteri all’esterrefatta consorte, mentre i figli subiranno un grottesco tiro alla fune, temendo l’incombere di una separazione.
Ma il morbo di «carente mascolinità» infetterà anche il barbuto Mats (Kristofer Hivju), che si troverà a discutere con l’occasionale e più giovane compagna sulle proprie (ir)responsabilità di genitore divorziato, e sull’incapacità della propria generazione di aver cura delle rispettive compagne e della relativa prole.
Eppure, un episodio (forse) provocato da Ebba stessa e una disavventura in autobus, ambientata sul Passo dello Stelvio, ridoneranno fiducia ai due uomini, rivelando però, in un finale un po’ troppo simbolico e rassicurante, l’ancestrale necessità di dover dimostrare il proprio ruolo di fronte a tutti, e la complementare aspettativa femminile in merito.
L’iniziale foto di famiglia, incrinata dalla scansione settimanale studiata dal regista svedese, si ricompone in un epilogo che cita esplicitamente «Il Fascino Discreto della Borghesia» di Buņuel ma anche «Il Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo.
UN UOMO È CIÓ CHE CI SI ASPETTA DA LUI
Sullo sfondo immobile delle Alpi, con una camera fissa che diverrà uno dei trademark del cinema di Östlund, fra skilift e cannoni sparaneve, dionisiaci addii al celibato e una Natura sempre più spettatrice dei patetici siparietti umani, «Forza Maggiore» mette in scena il dramma delle aspettative deluse nella moderna coppia borghese; l’ironia, gelida come l’onnipresente neve, viaggia sulle note di Vivaldi che fa da contrappunto all’inquietudine morale del protagonista maschile, dilaniato fra il senso di colpa e il pragmatismo de «in fin dei conti è andato tutto bene, nessuno si è fatto male».
L’iniziale negazione della propria fuga e il successivo automartirio riveleranno a contrario la crudele nemesi di Ebbe, moglie e madre che mai «calpesterebbe i propri figli per sopravvivere» e a poco varranno i ridicoli tentativi del norvegese Mats di giustificare a posteriori il comportamento del suo amico dietro un eroismo che di fatto apparterrebbe a pochi, o dietro la lungimiranza di chi ha deciso di scappare per poi a tornare a disseppellire i corpi dei cari.
Da un lato abbiamo un attacco frontale alla presunta sicurezza edificata dal Capitalismo, pronta a vacillare di fronte a un’innocua valanga, dall’altro c’è la figura del maschio moderno, proiettato verso scenari di inclusività ma sempre chiamato a dimostrare di essere all’altezza delle aspettative femminili, frattura e insanabile contraddizione di un società che nel tentativo di tenere insieme troppe variabili, finisce col rovinare su sé stessa, regredendo a miti patriarcali che hanno più a che fare con la proiezione di Sé che non con la reale sopravvivenza della specie.
Secondo quanto confessato dallo stesso Östlund, l’idea di «Forza Maggiore» si ispirò a un episodio realmente occorso a una coppia di amici, i quali, durante una vacanza in Sudamerica, furono aggrediti da alcuni uomini armati e a fuggire fu proprio il marito, circostanza che la donna non mancò di esporre a tutti dopo qualche calice di vino, ma anche da uno studio d’archivio su 18 disastri marittimi avvenuti in tre secoli, che statisticamente vedevano una più alta percentuale di uomini sopravvissuti rispetto a donne e bambini, il tutto inquadrato in una cornice che vede un elevatissimo tasso di divorzi fra le coppie scampate a sciagure di vario genere.
I fantasmatici due minuti di valanga, che valgono per abilità registica l’intera pellicola (e non è un caso, visto che Östlund, prima di laurearsi alla scuola di cinema di Göteborg, si cimentava in videoclip sciistici) ricordano per intensità l’incipit di «The Impossible», anche se la portata morale di quest’ultimo si pone esattamente all’opposto di «Forza Maggiore», centrifugo dal punto di vista familiare quanto il primo è centripeto, ma al di là dei possibili parallelismi (Von Trier e Kubrick su tutti), questo film resta destabilizzante, quindi aperto e ricco esegeticamente parlando, nonostante il tentativo di edulcorarne il finale.
Fra l’essere e l’etica del dover essere si pone la scivolosa questione del cosa ci si aspetta che dovremmo essere e, quando il (s)oggetto è femminile, basta una fragile falla nello scafo del Capitalismo, per regredire l’aspettativa che si ha di sé a livello paleo-barbarico.