La tiflodidattica (da «tiflos» che significa «cieco» in greco) è quella branca dell’insegnamento che si occupa dei non vedenti, o degli ipovedenti, offrendo un sostegno specifico ai soggetti interessati sia dal punto di vista della docenza (che deve essere necessariamente qualificata) sia come supporti (dai più basici alla tiflo-informatica), che come infrastrutture stabilmente radicate sul territorio.
A dare una reale valenza di inclusività alla tiflodidattica concorrono tre aspetti:
- La non episodicità dell’offerta formativa, che si deve intrecciare a quella di tutta la classe, consentendo al discente di «vedere» il proprio futuro attraverso il prisma della complessità, senza scadere nel provincialismo, o peggio, nell’assistenzialismo;
- La non parcellizzazione, ma specificità della didattica per ipo e non vedenti, riconosciuti come individui e non come categoria sociale standardizzabile;
- Il contatto e il coinvolgimento delle famiglie, fondamentali proprio per la continuità del servizio formativo erogato.
I SUSSIDI TIFLODIDATTICI
Da molti anni non si parla più di supporti tiflodidattici ma di sussidi, questo perché mentre il supporto è un ausilio che immobilizza, aiutandolo, il soggetto interessato, il sussidio (il cui significato latino oscilla fra il «mezzo» e «l’aiuto»), al contrario, evoca un’idea di sostegno mobile e meno invasivo.
Dall’imprescindibile, e geniale, invenzione di Louis Braille (risalente al 1829), si è sempre più convinti dell’importanza dei sussidi tiflodidattici per un apprendimento concreto e non nozionistico dei bambini ipovedenti e non vedenti, per agevolarne le rappresentazioni mentali e per ridurre la distanza fra il loro mondo sensibile e quello circostante.
I sussidi tiflodidattici sono prodotti in Italia principalmente da tre organi:
- Federazione Nazionale delle Istituzioni pro-ciechi;
- La Biblioteca Italiana per i ciechi «Regina Margherita»;
- L’Istituto Ciechi di Milano.
Per una loro corretta riuscita (leggi una didattica individuale e non a corrente alternata) necessitano di:
- Una spiccata e continuata (nel senso formativo del termine) capacità pedagogica dell’insegnante;
- Lo stimolo del discente ipo o non vedente che, non avendo il contatto visivo (lo si è notato in modo particolare durante la pandemia), tende a distrarsi con maggiore facilità;
- Una perfetta riuscita aptica, nel senso di una soddisfacente conoscenza tattile.
Il tipo di sussidi che si stanno analizzando si suddividono per aree disciplinari (logico-matematica; tecnico-espressiva; area della rappresentazione spaziale e materiale ludico) e finalità:
-) SUSSIDI PER L’APPRENDIMENTO: sono volti a promuovere l’apprendimento di specifiche funzioni percettive e psichiche, come l’analisi tattile, di rappresentazione mentale o di esplorazione e coordinazione bimanuale, il tutto al fine di raggiungere determinati obiettivi curricolari. Si tratta di strumenti con predeterminate finalità cognitive che possiedono già gli scopi per cui sono costruiti, e che si cumulano nel percorso di accrescimento delle competenze;
-) SUSSIDI OPERATIVI: si tratta di strumenti per l’apprendimento, ma anche di mezzi attraverso cui il bambino può operare, produrre ed esprimere sé stesso, come la «tavoletta» o il «dattilobraille» (macchina da scrivere con sei tasti corrispondenti ai sei punti braille), il «cubaritmo» e la «dattiloritmica», per le operazioni matematiche, e il «cuscinetto» o i «Piani» (in velcro o gomma) per il disegno.
Molti sussidi tiflodidattici sono utilizzabili anche dagli alunni vedenti, fattore che incentiva i processi integrativi in classe, come ad esempio i libri illustrati per la Materna, che incrementano le facoltà di rappresentazione simbolica, ma esiste anche una sorta di «canone inverso», e cioè dei sussidi (sempre per i gradi-base dell’istruzione) che, nati per vedenti, possono adattarsi all’uso di ipo e non vedenti, come quelli per lo sviluppo della motricità.
Un insegnante preparato e sensibile può riuscire di sua iniziativa ad estendere l’utilizzo di un sussidio tiflodidattico a tutta la classe, realizzando in modo non forzato quell’inclusività tanto vaticinata dalla politica e dalla società civile negli ultimi anni, ma per riuscirci deve:
- Scegliere il giusto materiale, coniugando il livello individuale con gli obiettivi da perseguire secondo il programma;
- Disporre il materiale su un piano di lavoro sgombro, fissandolo in posizione stabile (ad esempio con del nastro biadesivo) e quindi guidare, manualmente o verbalmente, il bambino nell’esplorazione senza suggerire né anticipare soluzioni, o considerazioni;
- L’uso del materiale a disposizione dev’essere sempre individuale e personalizzato per padroneggiarne a fondo la conoscenza, e l’esperimento va ripetuto molte volte, visto che la prassi aptica è più laboriosa di quella visiva: solo così si potrà passare dall’apprendimento singolo al gioco collettivo.
UN NUOVO PARADIGMA PER LA TIFLODIDATTICA
Una corretta tiflodidattica 2.0 è una didattica «a valenza integrata», fondata sull’uguaglianza delle opportunità di partenza, che non promuove la parità come obiettivo ma valorizza la differenza, scolastica e non, come stimolo di prossimità l’uno al mondo dell’altro.
Non si tratta di dare di più a chi ha di meno ma di fornirgli ciò di cui ha bisogno, attuando quella che in pedagogia si definisce «discriminazione positiva», e cioè il livellamento a scuola degli handicap (in questo caso visivi), attraverso i giusti strumenti didattici e di apprendimento.
Non bisogna concepire la tiflodidattica come una pratica suppletiva perché di fatto è una pedagogia parallela, con una sua precisa storia ed epistemologia, che educa e non addestra, ma soprattutto «riconosce» il soggetto ipo e non vedente.
Augusto Romagnoli, che tanto ha fatto in termini pioneristici per il tiflo-pensiero, parlava di parallelismo dei mondi sensoriali, spingendo sul potenziamento dell’esplorazione tattile attraverso i sussidi tiflodidattici, che consentirebbero la triangolazione fra oggetto reale, la sua rappresentazione bidimensionale (braille) e l’astrazione simbolica.
Senza astrazione (vedente e non) nessun pensiero può evolversi.
A differenza della vista, che prima abbraccia globalmente e poi scende nel dettaglio acuendo la profondità del pensiero, il tatto, che è il senso privilegiato dai non vedenti, parte dal dettaglio per astrarre l’insieme, conoscendo con le mani l’oggetto e con le dita i contorni, ma sempre in movimento (percezione aptico-cinestetica), perché solo dinamicamente possono attivarsi i ricettori tattili, o corpuscoli di Meissner (solo il polpastrello dell’indice ne conta 108).
È fondamentale muoversi in un campo limitato, delimitando la sfera d’azione per favorire la memoria motoria e l’orientamento, sviluppando la sensibilità cinestetica in modo che il bambino non vedente acquisisca in senso cronologico le nozioni spaziali.
La tiflotecnica (hardware e software) e la robotica creativa (bastoni elettronici o robot indossabili) sono solo i primi passi attraverso cui la rivoluzione digitale può realizzare una vera inclusività, ma solo se legata a una corretta preparazione pedagogica e alla giusta attenzione politica alle risorse e alle infrastrutture: la Rete non dev’essere solo da remoto, ma legare famiglie e (alle) istituzioni.
Una scuola che non lavora bene coi disabili diventa disabile.