È del 2017 il documentario «Funeralopolis-a Suburban Portrait» di Alessandro Redaelli, regista, montatore, produttore ed esperto di cortometraggi e videoclip, coadiuvato nel lavoro di scrittura e montaggio, che si sono evoluti parallelamente, da Ruggero Melis (autore anche delle musiche) e da Daniele Fagone: i due protagonisti, Lorenzo «Vash(ish)» Passera e Andrea «Felce» Piva, dotati di un indiscutibile carisma oltre che di una generazionale capacità di giocare con la macchina da presa, date anche dalla frequentazione del mondo hip hop (fanno parte della Black List Crew), si muovono in contesti lisergici dell’hinterland milanese, provando ogni tipo di stupefacente ma con una vera e propria dedizione per l’eroina, mentre la famiglia e le istituzioni in genere si riducono a sfondo e la loro amicizia, inizialmente incrollabile, si sgretola sotto gli inesorabili colpi della dipendenza.
Il regista conosceva i due trapper, stimandone l’attitudine quanto loro i suoi primi lavori, così ha deciso di seguirli, camera a mano, per un anno e mezzo, documentandone la parabola autodistruttiva in modo assolutamente amorale, rendendosi conto dopo sei mesi che il materiale prodotto non era più solo la base di un ipotetico videoclip o cortometraggio, ma l’ossatura di un possibile documentario (che finora è la cifra della sua produzione cinematografica).
Ergo, la genesi di Funeralopolis, pellicola già di culto nell’underground, consacrata dal maledettismo del passa-parola e dalla stigmatizzazione del circuito mainstream.
TRAMA: IO (C’)ERO
Nati a Bresso, come il regista, e risucchiati dal vortice della movida meneghina, Vash e Felce sono diversissimi ma affetti dallo stesso male: ogni loro esperienza è portata al limite. Dalle pere, consumate anche di giorno e in contesti surreali, come il bagno d’un treno in corsa, ai live in locali fumosi ove inscenare rituali satanisti benedicendo la folla con sostanze psicotrope, fino agli interni à la Trainspotting, ma senza l’alone letterario di Boyle, il tutto condito da dialoghi sullo spiritualismo, sulla religione e sul cinema, che hanno il minimo comune denominatore di un’alienazione ormai calcificata in stile di vita.
«L’importante è avere la droga, perché le persone fanno schifo. Meglio rimanere soli con la droga», è la battuta di apertura del film, oppure: «Nebbia cimiteriale, ci sei mai stato?/abbiamo il cielo bianco e non c’è nemmeno il mare,/ se mi muori a fianco ti scavalco per passare», la barra del singolo di punta del duo hardcore.
Il bianco e nero, riecheggiante «L’Odio» di Kassovitz o «L’Imperatore di Roma» di Nico d’Alessandria, insegue un’iconografia capovolta senza scadere nel citazionismo e il regista asseconda una trama inesistente che si compie (de)formandosi, comparendo persino nello specchio d’una toilette ed evolvendo (volontariamente?) l’artigianato d’autore in meta-cinematografia.
Due le scene degne di nota: il finale, che senza spoilerare, lascia presagire qualcosa di luttuoso e inafferrabile, e una sorta di «cena tossica» in cui una ragazza finge l’intervista a Vash e Felce mentre un comune amico (il vulnerabile e tenerissimo Athos) finisce col piangere mendicando un’altra dose, il tutto con la camera, impietoso trompe l’oeil dell’intrattenimento 3.0, che indugia su siringhe e cartine, cucchiaini e bottiglie, omaggiando il cinema di genere e rinnovando l’interrogativo di sempre: testimoniare con lo sguardo senza intervenire è immorale?
Redaelli va fino in fondo, ma nello sciame di interviste e commenti che ormai costituisce l’esoscheletro di ogni prodotto digitale, confessa un anno di post-produzione per snellire ben sei ore di girato «valido», con un furioso lavoro di montaggio, in opposizione al naturalismo della Nouvelle Vague o al recente feticismo del piano-sequenza, che finisce col trasformare l’adesione alla realtà in un semplice esercizio di stile.
In un passaggio della pellicola, il nome di una fermata della metro è sfocata e, più in generale, i luoghi di Funeralopolis sono riconoscibili solo da chi li frequenta abitualmente, poiché l’intenzione del regista è stata quella di ricreare la perfetta metropoli capovolta, la periferia inconfessabile orba della bellezza délabré di Gomorra: ecco quindi il tristemente noto bosco di Rogoredo, dove si possono reperire dosi di ero a pochi spiccioli, il cimitero monumentale riecheggiante un vecchio pezzo di Moltheni («come quando eravamo a Milano a guardarci le vene”), e poi il palcoscenico con una quarta parete «bucata» dalla ferocia di liriche ossessive.
Ma Funeralopolis, nella selva di omaggi e citazioni (su tutte «Amore tossico» di Caligari, esplicitamente evocato attraverso «Per Elisa» di Alice), è soprattutto un film sull’amicizia, un «Santa Maradona» in acido che fa risaltare, come un bassorilievo di catrame, la tenerezza dei due personaggi tutt’altro che banali e a loro modo infantilmente ripiegati su un’idea di morte che li accerchia e seduce senza mai imprigionarli.
La libertà autocombustiva di «Arancia Meccanica» pervade i succhi gastrici di Funeralopolis, i siparietti sulla religione («i paleocristiani credevano in cose semplici: la pietà filiale, la fratellanza e l’uguaglianza fra tutti. Io credo in quello»), il mobilio di casa sfregiato con la mazza da baseball, i pompini a otto euro (ma ti fai venire in bocca) e l’incongrua t-shirt «The true norwegian black metal», perché se le strade di Felce e Vash si dividono e il primo finirà col seppellire in un bosco la siringa, anelando a un primordiale lavaggio del sangue, o forse a un suicidio rituale, il secondo non potrà che perseguire la propria anti-catarsi fino al termine della notte.
L’EROINA COME IMMAGINE
«Se non avessi conosciuto Alessandro forse non avrei fatto questo film», ha dichiarato Andrea «Felce» Piva e, in effetti, un anno e mezzo di «pedinamento artistico» è stato possibile solo grazie all’attitudine postmoderna del duo di Bresso.
Una critica manieristica potrebbe obiettare all’esperimento tutto sommato «a tesi» di Redaelli una sorta di sperimentalismo posticcio perché, sapendo di essere ripresi, Andrea e Lorenzo avrebbero potuto volutamente esagerare ogni gesto, partorendo l’estremo dalla suggestione, ma ciò che rende invece unico Funeralopolis è che i suoi protagonisti sono cresciuti inquadrati da un telefonino, e per loro nulla esiste al di sotto di una certa soglia di visualizzazioni su YouTube.
L’eroina è l’immagine e il vero buco è la macchina da presa per una generazione che ha spinto l’autorappresentazione fino al tabù della morte, trasformando la tragedia in oscenità e la realtà in commedia nera: «Piantala che sto girando un documentario», sibila Vash ad Athos, «non sono mica un cabarettista», lucida metanarrazione di un antieroe il cui pantheon di riferimento è quasi esclusivamente cinematografico: il Travis di Taxi Driver fissa allo specchio Vincent Cassel, entrambi vigilati dalla nemesi urlante di Begbie.
È vero solo ciò che fa male e viene rappresentato, quindi il Male è nella rappresentazione come rivolta, onanistica e destrutturata, a una società il cui altissimo tasso di razionalizzazione e meccanicizzazione ha ridotto ogni attività umana, lavorativa e non, a semplice contemplazione (Lukàcs).