Nel 1985, un Italo Calvino mai così attento e responsabile (dal punto di vista critico) nel lasciare un’impronta del proprio lavoro alle generazioni future, fu invitato dall’Università di Harward, nel Massachusetts, a tenere le «Charles Eliot Norton Poetry Lectures», e cioè un ciclo di sei conferenze proprio sul termine «poetry», e cioè sulla comunicazione poetica (letteraria, musicale e figurativa): prestigiosa ricorrenza inaugurata nel 1926 e onorata nel corso degli anni da figure del calibro di Eliot, Borges o Igor Stravinsky, «le lezioni americane» (così definite dall’amico e critico Piero Citati, che divenne involontariamente il fautore del titolo finale) furono un pretesto per Calvino non solo per parlare di letteratura, ma anche per ragionare sul suo destino nell’era post-industriale.
Da «classico» vivente, qual era e sarebbe diventato, lo scrittore italiano di origini cubane sembrava intuire già dalla prefazione come il futuro della letteratura, e della scrittura in genere, sarebbe stato nel nuovo millennio condizionato dalla tecnologia e, senza lanciarsi in analisi futurologiche, sanciva il Novecento come il secolo dell’oggetto-libro, scrigno di memorie e custode del Sapere tradizionale.
È ancora così?
Ci sentiamo di dissentire. Nonostante la creazione letteraria resti alla base di quella che potremmo definire, per anglofonia, fiction, e nonostante i mille e più supporti in nostro possesso (destinati a moltiplicarsi o a sintetizzarsi in un’unica e terrorizzante unità), non possano prescindere dalle idee, che sono e restano analogiche, l’oggetto del nuovo millennio non è più il libro ma il formato digitale, imbrigliato, come un pesce che non subisce ma ridicolizza la lenza, nelle maglie della Rete.
E la didattica non poteva sfuggire a tale fenomeno.
LA CLASSE CAPOVOLTA
Conosciuta a livello internazionale con l’espressione inglese «flipped classroom», la classe (o insegnamento, o didattica) capovolta è un approccio metodologico che ribalta la classica lezione frontale, offrendo agli studenti l’opportunità di studiare individualmente a casa dei materiali forniti o suggeriti dal docente, e di vivere invece a scuola un’attività collaborativa e laboratoriale, fondata essenzialmente su verifiche e sul «peer learning», con l’insegnante non più relegato al ruolo di semplice travasatore, ma di motivatore e tutor.
Il principio ispiratore di una simile rivoluzione, inevitabilmente liquida (per dirlo alla Bauman), è che la maggior parte degli attuali stimoli per i discenti provenga da Internet e fiorisca al di fuori delle mura scolastiche, e che quindi non avrebbe senso trasformare le lezioni nella copia-carbone, nozionistica e inutile, di ciò che possono tranquillamente reperire in Rete, ma di renderle al contrario un momento di arricchimento cognitivo di ciò che hanno già appreso tramite video, podcast o slides.
Nasce quindi una pedagogia differenziata, con un apprendimento a progetto che lascia le competenze cognitive di base all’iniziativa individuale, occupandosi invece dei momenti cognitivi più alti (comprendere, applicare, valutare e creare) e dell’attività di problem solving, attraverso un ruolo completamente modificato del docente.
I primi esperimenti di flipped classroom sono stati condotti negli Anni Novanta da Eric Mazur, ma i fondatori ufficiali sono riconosciuti nelle persone di Jonathan Bergman e Aaron Sams, professori di chimica nel Colorado rurale che, per ovviare all’alto tasso di assenteismo, decisero di fornire agli studenti rimasti a casa dei video-tutorial sostitutivi delle lezioni frontali particolarmente apprezzate dagli studenti in presenza.
Siamo nel 2012 e, dalla diffusione statunitense del suo primo manuale in lingua inglese, la didattica capovolta si vara nel mondo della scuola accolta da una divisiva schiera di favorevoli e dubbiosi.
METODOLOGIA
Il primo step metodologico consiste nell’innescare, da parte dell’insegnante, la curiosità e il desiderio di conoscenza di uno specifico argomento negli allievi: questo comporta la metamorfosi dalla classica forma espositivo-risolutiva a quella ipotetico-dubitativa, in cui sono i discenti a proporre soluzioni, il più possibile creative, a contenuti radicati nella propria realtà quotidiana.
Nella seconda fase sono i ragazzi stessi, in base allo specifico contesto e alle proprie capacità individuali, a produrre materiali e documenti, elaborati in un setting predisposto appositamente dal docente, in cui esercitare le proprie strategie cognitive tramite domande appropriate, ipotesi attendibili e un confronto fra pari, che aiutino la formazione di un pensiero critico che coinvolga tutti e non marginalizzi nessuno.
L’ottica, mediata dall’insegnante-mentore, è quella di una squadra chiamata ad operare sul reale in modo investigativo, e proprio l’ultimo step (quello di rielaborazione/valutazione), che consiste nell’analisi e nella (auto)valutazione dei lavori prodotti, per giungere in modo collettivo e stimolante alla formalizzazione e astrazione dell’apprendimento, è quella decisiva che consolida, o dovrebbe consolidare, la flipped classroom come strumento indispensabile alla didattica del nuovo millennio.
INNOVAZIONE NON VUOL DIRE RIVOLUZIONE
A fianco agli entusiasti, sempre pronti a salivare pavlovianamente al solo pronunciarsi del termine «innovazione», i detrattori della flipped classroom basano le proprie critiche non sull’inefficacia di tale processo cognitivo ma sulla sua debolezza, affermando in sostanza che puntare sulla semplificazione (vocabolo che può avere una sua indiscutibile efficacia sul piano burocratico-amministrativo, ma che per il resto va usato con molta cautela) significa ridurre la complessità di ogni apprendimento, rischiando di appiattirne la problematicità.
Di fatto la classe capovolta non innova ma agisce con strumentazioni innovative: la didattica individualizzata e la pedagogia costruttivista già esistono da molto tempo e basano la propria riuscita, che è sempre a lungo termine, sul concetto di ambiente di apprendimento, che non può essere solo un set ben equipaggiato ma deve diventare un mo(n)do di concepire l’insegnamento, condiviso e trasversale.
Due sono i cardini (tutt’ora cigolanti) della FC:
- Degli studenti motivati e soprattutto responsabili;
- Degli insegnanti che abbiano tempo e risorse per preparare il terreno a questo tipo di didattica.
Per ciò che concerne il primo punto, la responsabilità di prepararsi a casa deriva dalla motivazione ispirata in classe, che deve a sua volta derivare da una conoscenza individuale e attenta di ogni singolo discente, compito difficilmente standardizzabile e dipendente dal grado di formazione del docente, che a sua volta deve essere motivato (parafrasando l’adagio «chi controlla il controllore», potremmo affermare «chi motiva il motivatore?»).
Per quanto riguarda invece il secondo punto, se l’insegnante è sottopagato e isolato, a volte non adeguatamente supportato dall’ambiente scolastico in cui opera, o addirittura costretto a pagare di sua tasca non solo la formazione (in questo caso permanente) ma anche i contenuti digitali da fornire ai ragazzi, la flipped classroom diviene solo una speranza tradita, l’ecomostro di un possibile edificio cognitivo.
La soluzione (o assoluzione) di tale pratica, blended per ragioni ontologiche, è l’assunzione del nuovo nell’antico (non ho detto vecchio), e cioè un aumento di spessore concettuale che supplisca alle mancanze sistemiche e digitali, in modo che il docente ridiventi frontale e sospenda momentaneamente l’evoluto ma complesso ruolo di tutor, se la classe, o il singolo alunno, ne hanno bisogno.