Social netwar: la guerra on line

da | Apr 29, 2022 | IN PRIMO PIANO

Dopo l’iniziale ebbrezza che da sempre accompagna le novità, soprattutto tecnologiche, la Rete e i social network, col controllo orwelliano dell’algoritmo, le fake news virali e le echo chamber che moltiplicano e indicizzano l’odio, sono divenuti il simbolo di una comunicazione senza controllo, che arricchisce grandi aziende tecnologiche il cui fatturato eguaglia e a volte supera il Pil di un piccolo Stato Nazionale.

La pandemia, dal lockdown duro alle forme più subdole di reclusione che si sono diffuse globalmente, ha sancito due inequivocabili e apparentemente contraddittori risultati: 1) il rafforzarsi dell’uso dei social network; 2) il loro venefico ruolo di cassa di risonanza di complottismi, post-verità, e manipolazioni più o meno coscienti dell’informazione.

Ma ora, col conflitto russo-ucraino (posso permettermi di usare questo termine senza rischiare 15 anni di galera come i miei colleghi sovietici) i social network e Big Tech stanno vivendo una fase che assume le giunoniche forme di un riscatto globale, senza per questo venir meno ai propri limiti strutturali, che vanno dai deficit sulla privacy alla raccolta a strascico dei dati personali, fino alle (finora) ridicole barriere fiscali cui sono andati incontro.

La guerra torna ad essere un grande affare, non solo per chi fabbrica armi.

SOCIAL NETWAR

Dopo la sbornia di consensi ottenuti con le Primavere Arabe, il declino socioculturale dei social network è parso inarrestabile, soprattutto a partire dal 2016, con le accuse di danneggiamento della salute psicofisica degli adolescenti, di incoraggiamento al genocidio e di radicalizzazione politica dei cittadini in vista di molte elezioni politiche (del lockdown pandemico si è già detto), ma l’attacco russo all’Ucraina lo scorso 24 febbraio sembra aver cambiato, e non di poco, le cose.

You Tube, Facebook e Tik Tok hanno bandito dalle proprie piattaforme europee i media statali russi, Sputnik e Russia Today, (You Tube in particolare ha iniziato a rimuovere tutti i contenuti che negano o sottostimano l’invasione, oltre ad impedire la monetizzazione dei video dei propri utenti russi), Twitter ha iniziato ad avvertire i propri iscritti quando interagiscono con link che portano a testate affiliate allo Stato Russo, mentre l’apparentemente fatuo Tik Tok ha sospeso i caricamenti di nuovi contenuti e lo streaming live dalla Russia, in polemica con la legge che punisce con quindici anni di reclusione chiunque usi termini come «conflitto» o «invasione», in luogo dell’istituzionale «operazione speciale».

Anche Apple e Microsoft hanno rimosso l’app di Russia Today dal proprio store, mentre Google ha interamente sospeso la propria attività pubblicitaria in Russia, e non ne accetta nuovi clienti per i servizi cloud; sempre Google ha messo delle risorse a disposizione di chi fugge dall’Ucraina utilizzando Google Maps, mentre Airbn ha offerto alloggio temporaneo a 100 000 rifugiati, interrompendo tutte le transazioni dal mercato russo e bielorusso, così come hanno fatto Netflix, Paypal, Adobe, IBM, Intel, Nvidia, Samsung, Buble, Electronic Arts, Ubisoft, Nintendo e Amazon, che ha bloccato le spedizioni al dettaglio, l’accesso a Prime Video e ad Amazon Web Services per chiunque «minacci, inciti, promuova e incoraggi attivamente la violenza, il terrorismo e altri gravi danni.»

Oltre alla socialità «verticale» del conflitto, va sottolineata l’attività «orizzontale» (di citizen journalism) svolta dagli utenti ucraini, che hanno dato testimonianza sui principali social della propria quotidianità bellica e delle relative città distrutte: emblematico il video della signora che dà semi di girasole ai soldati russi così «cresceranno dei fiori sul suolo ucraino quando morirete», o il post su Facebook dell’Ente Nazionale responsabile per la manutenzione delle strade che, esortando i cittadini a smantellare i segnali stradali e a costruire barricate di pneumatici in fiamme per disorientare i militari russi, ha allegato la foto di un segnale stradale che li invitava candidamente ad andare a quel paese, anche se la vera social star è il premier Volodymir Zelensky che, nonostante il poco credibile passato di comico, attore e doppiatore di cartoon, aggiorna quotidianamente i suoi 1,4 milioni di followers dal proprio canale Telegram.

La risposta di Mosca è stata quella di restringere l’accesso a tutte le piattaforme appartenenti a Meta, considerate  come «organizzazioni estremiste», assumendo il controllo di Vkontakte, il secondo social più usato in Russia, dopo aver messo al bando per due anni Telegram e il suo creatore (Durov, attualmente a Dubai) che è il primo: a differenza di Pechino, che ha controllato e accompagnato sin dagli albori lo sviluppo di Internet, il Governo di Mosca ha replicato la triade «censura, controllo e propaganda» usata durante la Guerra Fredda, con la strategia di mettere al vertice di ogni testata o piattaforma on line un uomo di fiducia del Cremlino, oltre ad approvare dal 2011 ad oggi una serie di leggi che restringono la libertà di Internet, facendo della Rete russa la tredicesima meno libera al mondo.

Ma la porosità di Internet, e la sua struttura decentralizzata, ridicolizzano i metodi novecenteschi dell’Fsb (l’erede del Kgb): basti pensare a quando nel 2014 Mosca negava la presenza di sue truppe in Ucraina, mentre i propri soldati postavano ignari selfie sorridenti proprio da quei territori.

La risposta di Putin alla cyberguerra e alle social-sanzioni, cloni digitali delle sanzioni economiche, sembra essere il tentativo di chiudere il popolo russo in una bolla autoreferenziale di app nazionali, sostituendo RuTube a You Tube, Ya molodets a Tik Tok, e la voce di Marusya a quella di Siri, operazione che sembrerebbe anacronistica e vagamente autarchica se il premier russo non continuasse a mietere così tanti consensi in Patria.

Quello che sembra evidente, pur nelle differenze generazionali, che spingono i più giovani a cercare informazioni dai video privati dei cittadini e i più agè a compulsare le versione digitale dei format cartacei di sempre, è che i social network hanno aumentato il proprio potere in termini politici, sfiorando l’attivismo e costringendo gli stati Nazionali a servirsi di loro, smettendola di considerarli semplice intrattenimento e capendo che quando un mezzo totalizza milioni (se non miliardi) di fruitori è già un fine.

Il rischio è che i followers, senza il periodo di incubazione critica che permetteva alla vecchia politica di creare vere e proprie correnti, subiscano passivamente la versione dei propri leader, in una Storia sempre più in ritardo sull’attualità (basti pensare alla «edit war» di Wikipedia Italia per l’aggiornamento della voce «invasione russa dell’Ucraina nel 2022»).

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