Gli Anni Amari: lottare per la pace è come scopare per la castità

da | Apr 21, 2022 | MONDOVISIONE

Uscito in sordina nel 2020, e con un budget abbastanza limitato, «Gli Anni Amari», il biopic di Andrea Adriatico su Mario Mieli, scritto a sei mani con Grazia Verasani e Stefano Casi (quest’ultimo autore anche di un saggio sull’intellettuale milanese), che compaiono anche in un cameo del film, racconta la vita dell’attivista meneghino di origini giudaico-egiziane che attraversò gli anni Settanta incrociando i propri studi sulla liberazione del movimento omosessuale con la militanza nel marxismo rivoluzionario.

Personaggio scomodo e anticonformista, che ebbe però importanti riconoscimenti dalla cultura ufficiale, pubblicando la propria tesi di laurea, ampliata e rivista, proprio con l’Einaudi («Elementi di Critica Omosessuale») e collaborando con la Rai nell’incongrua veste (nell’etimo, visto che lo fece da travestito) di documentarista-intervistatore, Mieli divise e tutt’ora divide tra chi lo criticò per essersi auto-ghettizzato in una comune di variopinta marginalità e chi invece ad oggi lo considera un precursore degli studi di genere, che non si limitò a teorizzare l’emancipazione gay ma la visse, pagando un prezzo altissimo, soprattutto dal punto di vista familiare.

TRAMA

La pellicola ripercorre la vita di Mieli, nato a Milano nel 1952 da una ricca famiglia di commercianti di seta, dalle prime ribellioni adolescenziali nel rinomato Liceo Classico Parini, fino al tragico suicidio à la Sylvia Plath (testa nel forno), avvenuto il 12 marzo del 1982.

Con un padre tollerante ma estremamente conservatore (nel film interpretato da Antonio Catania), e una madre colta e, seppur innamorata della mente del figlio, incapace di accettarne fino in fondo la natura eversiva (ruolo non facile, ben costruito da Sandra Ceccarelli), Mario (Nicola di Benedetto) si distingue dai numerosi fratelli per acume culturale, smania di viaggiare, e un’idea che potremmo definire orfica di sessualità; l’opera racconta il viaggio a Londra nei primi anni Settanta, con l’adesione al Gay Liberation Front, le amicizie con personaggi del calibro di Fernanda Pivano e Ivan Cattaneo, i rapporti conflittuali col movimento operaio e col marxismo proletario, ma soprattutto la pubblicazione del pamphlet einaudiano, la televisione e il teatro, per non parlare delle tante riviste scritte e fondate per sensibilizzare non tanto l’opinione pubblica ma gli omosessuali stessi, i repressi e quelli manifesti ma ancora oberati dal senso di colpa.

Nonostante la narrazione sia filologicamente impeccabile, manca un vero approfondimento del personaggio Mieli, col suo bipolarismo e il rapporto tormentato coi sentimenti, che lo spinsero ad allontanare chiunque cercasse di amarlo veramente, come la madre o il compagno, e futuro scrittore, Umberto Pasti.

IL PERSONALE È POLITICO

Disseminato di citazioni d’epoca (dal «Benvenuto Major Tom» di Bowie agli antesignani cartelli di protesta «Come Out!», prodromi della filosofia del «coming out»), «Gli Anni Amari» ci consegna il ritratto di un moderno Oscar Wilde alle prese con la psichiatria anni Settanta che voleva ridurre l’omosessualità a una malattia («Noi non siamo malati ma felici!», trilla Mario al Primo Congresso Internazionale di Sessuologia, svoltosi a Sanremo nel 1972), e contro quelli che lui definiva «psiconazisti», e cioè i medici che volevano ricondurre la sessualità a una norma e «curare» i gay con una prostituta.

La parte intellettualmente più interessante del film è sicuramente lo scontro-confronto col movimento operaio e il parallelismo col femminismo, che secondo Mieli doveva viaggiare di pari passo con l’evoluzione del pensiero gay, entro la liberazione sessuale innescata dalla coscienza marxista.

«I veri rivoluzionari non lo prendono nel culo», sbuffa uno studente a un raduno, mentre un operaio accetterà anni dopo di farsi intervistare da Mario «en femme», dimostrando un’inaspettata apertura mentale; il movimento studentesco non era tenero nei confronti di Mieli e dei suoi coreuti, così come loro si dissociarono dagli omosessuali che si unirono ai Radicali in politica, ma l’elemento più shoccante , e retrospettivamente innovativo, era la gioia mimetica e libertaria (non ho detto libertina) evocata dal personaggio Mieli: «Purtroppo il proletariato ci ha tolto il nostro piccolo spazio. Siamo di nuovo confinati in un ghetto. Siamo venuti qui per battere, che significa divertirci e dilatare il nostro spazio di desiderio […] visto che non possiamo battere, inizieremo a combattere. El pueblo unido è meglio travestito. E ora, e ora, il trucco a chi lavora».

L’intellettuale ebreo e omosessuale («purtroppo non negro») non rivendicava semplicemente l’ermafroditismo, sulla scia della Poesia di Coleridge o dell’«Orlando» della Woolf, ma la fine di ogni persecuzione attraverso la liberalizzazione del desiderio omosessuale, insito (per lui) in ognuno di noi, e questo tramite la prativa rivoluzionaria del travestitismo.

La chiave concettuale del Mieli-pensiero sta tutta nel suo teatro («La Traviata/Norma, ovvero: vaffanculo…ebbene sì!»), quando in un emiciclo di curiosi e omosessuali più sobri e attempati, una delle creature androgine che il palcoscenico accetta e benedice, quanto la società condanna alla forca o al rogo catartico, esclama: «tutti i devianti scesero in piazza/ed ammazzarono la norma pazza!».

Inoltre, come non considerare profetica l’affermazione che apre la recensione: «lottare per la pace è come scopare per la castità», denuncia trasversale e beffarda a qualsiasi strumentalizzazione bellica e/o esportazione di democrazie (vere o presunte).

MALE DI MIELI

Non si può leggere l’omosessualità anarcoide del pensatore d’origini egiziane senza considerare che la sua parabola si consumò prima della falce dell’Aids, che tanto condizionò e represse il mondo gay, soprattutto nella decade 80/90.

Ma l’attualizzazione de «Elementi di Critica Omosessuale» va operata soprattutto sul piano della famiglia e del neocapitalismo: Mario si scagliava contro una cultura (educastrazione) che in nome della famiglia, accettava e promuoveva il capitalismo che proprio su bisogni di quest’ultima costruì(va) quella deleteria società dei consumi che avrebbe trovato terreno fertile nell’edonismo anni Ottanta.

L’attuale Capitalismo (il cui «permettere tutto per non consentire niente» di pasoliniana memoria è stato ampiamente (de)realizzato) è invece nemico giurato della famiglia e promuove ogni forma di libertà purché sia funzionale all’individuo, debitamente isolato nella vischiosa funzionalità della Rete.

Nel mito onanistico del deliveroo-pensiero, la pervasività dell’acquisto on line è l’antitesi di ogni attivismo o coscienza di classe. La customizzazione del marketing ha sostituito al desiderio totalizzante sognato da Mieli, i simulacri del desiderio: non mangiare ma rappresentare il cibo, non fare sesso ma immaginare il sesso.

Eppure, nonostante Gli Anni Amari sia eccessivamente didascalico e manchi di quell’approfondimento intimo che avrebbe trasformato il particolare in universale (e viceversa), come accade nel viaggio di formazione di «Into the Wild», resta l’eredità di un uomo che non aveva paura dei suoi desideri e che ne morì consumato, ma senza mai ritrattare.

«D’altra parte, è perverso che,

per secoli le donne sono state costrette

dal potere maschile a vestirsi in maniera oppressiva,

quasi sempre i grandi ideatori della moda,

gli stilisti, i truccatori, i parrucchieri,

sono stati gay.

La fantasia omosessuale veniva e viene sfruttata

dal sistema -l’abbiamo visto-

per reprimere le donne e conciarle come l’uomo vuole.

Per secoli

il potere ha sfruttato il lavoro degli omosessuali

per sottomettere le donne

così come si è abbondantemente servito delle donne

per reprimere i gay

(a ogni omosessuale basti ricordare la propria madre).

[M. Mieli «Elementi di Critica Omosessuale»]

Ogni eterosessuale è eterosessuale allo stesso modo, ogni omosessuale è omosessuale a modo suo.

Ciao Mario.

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