Nonostante la pandemia sia stata un’ottima lente d’ingrandimento delle tare del nostro sistema scolastico, e l’istruzione il mattone politico su cui le istituzioni sembrano voler riedificare un’idea di futuro e coesione sociale, la realtà dei fatti, al netto di ogni retorica e strumentalizzazione, è che il Covid, col tanto vituperato ma necessario ricorso alla Dad, sia stata un’occasione persa.
Troppo poco è stato fatto in tutte le direzioni deficitarie del nostro apparato didattico, sia in termini di precariato che di efficientamento tecnologico, di edilizia scolastica e di sperequazione fra Nord e Sud, ed ora che la lente si sposta sul fattore finanziario i tagli emergono impietosamente, nonostante si cerchi di contestualizzarli, ma non c’è oro che possa riparare la lesionata ceramica di decenni di scelte sbagliate, né kintsugi in grado di abbellire delle ferite (non solo estetiche) che rischiano di lanciare un messaggio spaventosamente reazionario ai nostri giovani: un Paese che non investe nella scuola è un Paese senza futuro, nonostante se ne riempia sovente la bocca.
CALO DEMOGRAFICO
Trentamila studenti persi nel 2022, e tra il 2019/2020 e il 2022/2023 si prevedono 200 mila unità in meno alla primaria e 139 mila in meno alla scuola per l’infanzia: tra dieci anni si potrebbe avere complessivamente una dispersione di 1,4 milioni di studenti. A lanciare l’allarme era stato proprio il Ministro Bianchi, esattamente un anno fa, rilanciando comunque l’aumento degli organici per scongiurare l’incubo delle classi-pollaio.
Nel documento di economia e finanza, approvato dal CdM il 6 aprile scorso, si parla invece di una riduzione della spesa per l’istruzione, anche se il numero complessivo di cattedre rimarrà invariato.
La spiegazione di una simile (incoerente e discussa) decisione ce la fornisce la Ragioneria Generale dello Stato, parlando della generale tendenza europea, per quanto diversa come intensità in ogni singolo paese, all’invecchiamento della popolazione, cosa che sta portando a una significativa riduzione della cittadinanza attiva, su cui pesano le spese di natura sociale: le immediate conseguenze sono l’aumento dei costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria, compensabili soltanto (vedere il Def) con una diminuzione degli esborsi per l’istruzione, dal 4% del Pil attuali al 3,5%.
Che tale decisione coincida, cronologicamente parlando, con un aumento del 2% delle spese militari in funzione (ma non solo) degli aiuti all’Ucraina, ha comprensibilmente sollevato molte polemiche, anche se gli analisti più avveduti hanno parlato del peso delle Regioni nell’ottica del riequilibrio del depauperamento agli investimenti scolastici, anche in funzione di quella Riforma dell’autonomia differenziata cui sta lavorando da tempo la Ministra per le Autonomie Regionali, Maria Stella Gelmini.
Nel frattempo, il tetto di spesa per i libri di testo (di ogni ordine e grado) è fermo al 2012: in nessun altro settore industriale i prezzi sono bloccati da dieci anni, e inoltre da luglio 2021 la carta per stampare è aumentata fra il 60 e il 70%, con i conseguenti rincari degli inchiostri e dei costi tipografici.
Molti sono stati i provvedimenti governativi per venire incontro alle aziende in difficoltà per il Covid, ma in questo senso non si è pensato ad esempio né a riconoscere un credito d’imposta per l’acquisto carta, e nemmeno a un’eventuale detraibilità per l’acquisto dei testi alle famiglie.
Ma siamo sicuri che dietro la ratio di diminuire la spesa per l’istruzione ci sia soltanto il calo demografico?
In realtà, dal 2008 al 2016 gli investimenti per la scuola sono passati dal 4,8% del Pil al 3,3% (peggio di noi solo Irlanda, Repubblica Ceca e Lussemburgo), ma un’analisi seria deve anche considerare il numero e tipo di destinatari, così scopriamo che mentre per l’educazione pre-primaria, primaria e secondaria, l’Italia è in linea con gli standard europei, la spesa per l’istruzione terziaria (Università; alta formazione artistica e coreutica; formazione terziaria professionalizzante) è la più bassa in assoluto dell’Ue, sia come punti percentuali del Pil che come spesa pubblica totale.
Dunque, è dal 2008, fatta eccezione per un’inversione di tendenza d’un punto percentuale nel 2018, che gli investimenti nella scuola calano, e non solo per il decremento demografico.
REAZIONI E SOLUZIONI
La reazione della Gilda degli insegnanti non si è fatta attendere: «è inaccettabile che, dopo anni di tagli, sulle risorse destinate alla scuola, si abbatta ancora la scure della politica». In particolare, il coordinatore nazionale della Gilda, Rino di Meglio, sul ruolo di Cenerentola dell’istruzione in termini di Spesa Pubblica ha dichiarato: «se si rinuncia a questa missione [investire per integrare. N.d.R.] avremo un Paese con periferie ridotte a ghetti e costretto ad aumentare le spese per carceri ed ordine pubblico; un Paese che non coltiva l’istruzione delle future generazioni è un Paese destinato a una lenta agonia e alla decadenza».
Non dissimile il parere di Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici, ex responsabile del Fmi e della «spending review» di dieci anni fa, nonché economista e scrittore (suo il recente «All’Inferno e ritorno») che, ricordando soprattutto la legge 133 del 2008 (Gelmini-Tremonti) che produsse 100 mila cancellazioni di cattedre e decine di migliaia di posti Ata in meno, con la conseguente perdita di 2000 istituti autonomi, compresenze di insegnanti, specializzazioni di maestri alla primaria, e ore settimanali di lezione, sottolinea come la Pubblica Istruzione sia la voce di bilancio più trascurata in assoluto dalla Spesa Pubblica fin dal 2007.
Nel 2014, come commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, aveva parlato di rafforzamento del capitale umano nell’investire sulla scuola, soprattutto al Meridione, per lanciare un messaggio a lungo termine e donare una possibilità a tutti. Più in generale, in tutta la sua carriera, nemmeno ai tempi della razionalizzazione della Pubblica Amministrazione, ha mai parlato di tagli a istruzione e cultura.
Ma al di là dell’indignazione dei vari agenti politici, e dell’indiscusso dato demografico, le recenti decisioni che puntano all’inclusione, all’incremento tecnologico per diminuire il digital divide, e alla lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa minorile, sembrano operazioni di cosmesi al netto dei tagli finanziari, anche perché puntare sulle già vessate Regioni per calmierare il tutto sembra più uno scaricabarile che non un intelligente contrappeso.
Aumentare la spesa pubblica in istruzione, proprio per invertire il calo demografico e invogliare le giovani famiglie italiane a fare figli (e a donare loro un futuro che non comporti la fuga all’estero o l’indigenza), sarebbe stata una decisione politica lungimirante e di rottura: se la fetta da dividere si assottiglia, inclusione e resilienza restano solo belle parole, buone per la carta dei giornali, tra l’altro in rovinoso aumento, come visto, negli ultimi tempi.