Nonostante buona parte della critica l’abbia bocciato, operando una discutibile cesura fra il regista del Sesto Senso, The Village, Signs, e quello degli ultimi anni, che continuerebbe ad operare sugli stessi registri ma con minore incisività, «Old», l’ultimo film di M. Night Shyamalan, è tutt’altro che un esperimento fallito.
Liberamente ispirato alla più scarna graphic novel «Il Castello di Sabbia», di Pierre Oscar Levy e Frederik Peeters, la pellicola ha un buon cast, in cui spiccano Gael Garcìa Bernal e Rufus Sewell, e una fotografia curatissima (Mike Gioulakis, vedi «It Follows»), ma quello che maggiormente colpisce è l’abilità registica che tesse intorno alla trama una ragnatela di segni in grado di anticipare senza mai svelare i colpi di scena, che sono quintessenziali nel cinema dell’autore di origini indiane.
In un’opera che fa del simbolico il proprio linguaggio predominante, non manca il gusto del grottesco (spinto così agli estremi da diventare quasi comico), la meta-cinematografia e alcuni evidenti buchi narrativi che non possono non essere volontari, al punto da sottolineare la volontà del demiurgo di giocare sul piano metaforico, sacrificando qualcosa alla verosimiglianza.
Eppure, nonostante «Old» viaggi spedito verso un discutibile happy ending che, spiegando tutto, toglie qualcosa all’atmosfera instaurata sin dall’inizio, i suoi interrogativi restano sospesi perché trascendono il bel giocattolo ideato da Night, lasciando presagire un nichilismo di fondo cui nemmeno la rassicurante tecnica cinematografica, e i paranoici sistemi di controllo globale, possono ovviare.
TRAMA
Guy e Prisca (dall’aggettivo «pricus», più vecchio) sono una coppia prossima al divorzio che decide di godersi un’inattesa vacanza tropicale insieme ai due figli dopo che lei ha scoperto di ospitare un tumore benigno: l’isola che li accoglie (sita nella Repubblica Dominicana) è il classico Paradiso terrestre da cartolina, ma il direttore della struttura propone loro un ulteriore spostamento verso una spiaggia segreta cinta da una suggestiva formazione rocciosa.
Ovviamente la famiglia accetterà e insieme ad altre tre coppie e al pittoresco (e mastodontico) rapper Mild-Size Sedan, si ritroveranno su un litorale incantevole battuto da un oceano furiosamente blu.
L’agnizione del corpo dell’amante di Sedan, allontanatasi a nuoto la notte precedente, e il decesso prima della madre poi del cane del cardiologo, spingeranno il gruppo a decidere di far ritorno al resort (ovviamente i cellulari non prendono), ma una sorta di svenimento misto a nausea impedirà a chiunque di percorrere in senso inverso il canyon che seziona l’ambigua formazione rocciosa.
È in quel momento che i turisti si accorgono di un’anomalia temporale, osservando i propri figli crescere a dismisura: sull’isola ad ogni mezz’ora corrisponde un anno di vita. Mentre negli adulti ciò rappresenta solo un accelerato sviluppo cellulare, nei bambini è il corpo a subire una metamorfosi evidente, al punto che due seienni finiranno per perdere la verginità e concepire un figlio (morto perché ignorato per appena un minuto).
Anomalia nell’anomalia, la piccola comunità scoprirà che ogni elemento soffre di una patologia piuttosto invalidante e che in cima alla barriera montuosa qualcuno li sta riprendendo con una telecamera.
Falliti i tentativi di allontanarsi a nuoto e conclamata la schizofrenia del medico, l’unico sulla carta in grado di proteggerli, i personaggi inizieranno ad invecchiare e morire, interrogandosi sul concetto di tempo che scorre e sulle scelte compiute fino a quel momento, finchè Trent e Maddox, i figli di Guy e Prisca, non decripteranno un messaggio lasciato loro dal figlio del direttore del resort, che forse indica una possibile via di fuga.
L’epilogo, svelando il ruolo di cavie interpretato dai fruitori del soggiorno tropicale, solleva l’attualissimo quesito etico sulla liceità dei vaccini e sui limiti morali della scienza e della sperimentazione.
«NIGHT» AND DAY
Night Shyamalan dissemina di indizi la parte iniziale di Old: il dépliant che Guy trova in stanza appena dopo il check-in è quello d’una casa farmaceutica; il piccolo Trent si lamenta con la madre del tragitto in auto che sta durando più dei cinque minuti pattuiti; Maddox canta e Prisca le dice che non vede l’ora di sentire come sarà la sua voce da adulta; i bambini in spiaggia provano a fermare il tempo giocando a 1,2,3 Stella!; il quantitativo di cibo che l’autista lascia loro per il pic-nic è enorme «perché i bambini mangiano tanto e voi ne avete più di uno»; prima di raggiungere la barriera rocciosa, Guy e Prisca litigano perché il primo, da assicuratore, è proiettato verso il futuro mentre lei, da curatrice museale, pensa soltanto al passato.
Tutti i nodi verranno al pettine, ogni citazione troverà il suo senso, e il coraggio di girare un thriller in pieno giorno, che coniuga le seriali atmosfere di «Lost» ai minerali misteri di «Pic-Nic ad Hanging Rock», verrà premiato da una suspence perfettamente amalgamata alla parte più introspettiva della trama.
Il primo strato interpretativo è il «tempus fugit», cui da sempre l’umanità è sottoposta, acuito dall’impietoso metronomo della tecnologia nella società dei consumi, ma anche la ritualità bandita dall’eterno presente della Rete («ci siamo persi balli di fine anno, compleanni», sussurra Trent che in poche ore è passato dall’infanzia alla pubertà), e i movimenti di macchina ben miscelati ai fuori campo, mostrano coi giusti tempi l’innaturale crescita dei ragazzi, anticipata dai primi piani attoniti degli adulti.
Il cameo di Shyamalan, prima traghettatore degli ospiti in spiaggia, e poi cinico voyeur in cima alla montagna, è la prova d’un cinema, ma per estensione di un’immagine, mai innocente ma sempre partecipe del tragico che testimonia, e che spesso contribuisce a creare.
UNA COSA DIVERTENTE CHE NON FARÓ MAI PIÚ
Prendendo in prestito uno dei titoli più divertenti del geniale autore americano D.F.Wallace, possiamo dire che «Old» cavalca il trito cliché horror «vacanza paradisiaca finita storta», per descrivere come ognuno di noi non abbia il pieno controllo delle proprie azioni, finendo vittima di una corporalità caducamente proiettata verso un futuro illusorio.
Incapaci di accettare il peso di un passato ingombrante, o famelici di un orizzonte eternamente prorogato, siamo incapaci di goderci il presente e persino l’oceanica bellezza di un’isola deserta può trasformarsi in una cella, se non ci liberiamo dei nostri pregiudizi e delle nostre ossessioni: l’accelerata corruzione dei corpi sbriciola rapidamente in polvere le ossa dei defunti che diventano parte dell’arena della spiaggia, vigilata dalle inquietanti pareti rocciose, custodi di un tempo né ritrovato né perduto, ma semplicemente inseguito.
Eppure, c’è una risposta al countdown nichilista del film, ed è la serena accettazione dei reciproci limiti che Guy e Prisca raggiungono prima della fine, laddove (particolare fondamentale sfuggito alla maggior parte della critica) per tutti e 100 i minuti della messa in scena qualcuno urla furioso: «avevi detto che ci avresti protetto!!».
Siamo senza protezione di fronte alla forza corrosiva del tempo, e spesso proprio chi dovrebbe salvarci ci abbandona, lasciandoci in preda ai rimpianti e al velenoso peso dei ricordi.
In ogni caso è «Missouri» il film in cui Marlon Brando e Jack Nicholson hanno recitato insieme e che il cardiologo schizofrenico cerca di rammentare prima di impazzire definitivamente.
La memoria del cinema che pensa sé stesso è fatta di frammenti inumati, perfettamente indipendenti gli uni dagli altri: un istante vale un’era geologica dal punto di vista dell’eternità. E della macchina da presa.