Green pass…ion

da | Mar 25, 2022 | IN PRIMO PIANO

Uno dei massimi cortocircuiti della (post)modernità è l’aver involuto il dibattito socioeconomico dalle idee ai dati: se è vero che qualsiasi informazione in senso lato è politica, quindi strumentalizzabile, e la cosa è sdoganata in ogni corso base di statistica, è altrettanto vero che litigare sull’oggettività, e non sulla sua interpretazione, è una perdita di tempo che al netto di un’ecologia ripidamente in allarme, non possiamo permetterci.

Nel 2015 l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) prevedeva che nel 2040 l’energia solare sarebbe stata più cara delle fonti fossili ma già nel 2021, a sei anni dall’Accordo di Parigi, la stessa Agenzia ha definito il solare la fonte di energia più economica in alcune zone del mondo; l’istituto di ricerca Bloomberg New Energy Finance ha allargato lo spettro ottimista della IEA, affermando che il solare è già potenzialmente più conveniente dei combustibili fossili nel 90% del pianeta; nel 2006 il rapporto Stern calcolava che la transizione ecologica sarebbe costata l’1% del Pil mondiale ogni anno, sempre tenendo conto che il prezzo dell’inanità generale sarebbe stato fino a quindici o venti volte superiore, ma un rapporto dell’Oxford Martin School, risalente al 2020, ha ribaltato l’iniziale previsione sostenendo che il rapido passaggio a eolico, solare e batterie, farebbe risparmiare al mondo migliaia di miliardi di dollari.

È un dato di fatto che, a prescindere dagli interessi politici in gioco e al netto degli scenari geopolitici che si stanno formando (o deformando), fotovoltaico, eolico e batterie sono diventati, grazie alle economie di scala, un trio molto competitivo sul mercato dell’energia, e non più il sogno modaiolo dei radical chic della Silicon Valley, così com’è assodato da recenti studi (Harward 2018, e il saggio «Choked» del 2019 scritto dalla giornalista Beth Gardiner) che ogni anno una persona su cinque, circa otto milioni di persone, muore per aver inalato aria inquinata dai combustibili fossili, i quali sono (in)direttamente responsabili anche di patologie cardiovascolari, cancro, demenza, calo di rendimento scolastico e nascite premature.

NON FOSSILIZZIAMOCI

Oltre ad essere inquinanti, pericolosi per la salute, e limitati come risorse, i combustibili fossili pesano tantissimo sui trasporti (negli Stati Uniti la metà del traffico su rotaia ha a che fare col carbone). Negli ultimi anni, le maggiori multinazionali degli idrocarburi si stanno affannando per scovare nuovi giacimenti e per affinare le tecniche di estrazione e raffinazione, ma non sempre l’opinione pubblica e le associazioni ambientaliste glielo permettono: emblematico è in tal senso l’assalto della Shell alla provincia sudafricana dell’Eastern Cape, seimila chilometri quadrati al largo della Wild Coast, famosi per la fauna marina (balene, delfini e il rarissimo carango gigante) e per le bellezze naturali.

A partire dal 5 dicembre 2021, la multinazionale olandese ha iniziato, autorizzata dal governo sudafricano, una serie di esplorazioni (leggi trivellazioni) in grado di generare pericolose onde sismiche, dannose sia per la flora che per la fauna marina; subito abitanti e ambientalisti si sono mossi con petizioni e azioni legali, manifestando il proprio dissenso non solo civico, visto che l’economia di molti villaggi della Wild Coast si basa sulla pesca non industriale e sulla rivendita locale dei prodotti ittici.

Per ora la Shell ha interrotto le ricerche poiché un tribunale ha ritenuto poco chiare le informazioni fornite agli indigeni sugli eventuali rischi ambientali delle esplorazioni marine in corso, violando di fatto i loro diritti costituzionali, ed anche se il colosso olandese può fare ricorso, fino all’aprile di quest’anno le ragioni dei manifestanti (ben rappresentate dal simbolo della Shell munito di luciferine corna con sopra la scritta «Stop (S)hell») sembrano aver prevalso, anche se il velenoso ritornello durante i sit-in, riferito ovviamente al lassismo politico, è stato: «chi ci ha guadagnato?».

Il 15 gennaio 2022 la spettacolare eruzione di un vulcano sottomarino a Tonga (Oceano Pacifico) ha causato delle onde anomale che hanno fatto fuoriuscire, dalla raffineria peruviana la Pampilla, un quantitativo di greggio pari a dodicimila barili, che hanno contaminato diciottomila chilometri quadrati di aree protette, uccidendo tantissimi uccelli e animali marini.

La Repsol, l’azienda spagnola proprietaria della raffineria, ritenuta responsabile del disastro, ha appaltato ad otto società il servizio di pulizia del petrolio, che consiste nell’inumano compito di prelevare il materiale direttamente dall’Oceano, versarlo nei barili e trasportarlo sulle limitrofe alture attraverso un rudimentale sistema di corde: gli uomini lì impiegati lavorano dalle otto alle cinque del pomeriggio, percependo 80 sol al giorno (18 euro), spesso senza contratto ma solo con un accordo verbale e un’assicurazione sulla vita praticamente inutile, visto che sarebbe infinitamente più preziosa un’assicurazione sanitaria.

Sotto un caldo asfissiante, che peggiora il tanfo del petrolio in grado letteralmente di bruciare le narici, il proletariato del disastro indossa insufficienti tute bianche, mascherine e stivali di gomma, quando il Ministero della Salute peruviano ha parlato di possibili irritazioni della pelle, danni al sistema respiratorio, problemi digestivi, solo come effetti a breve termine, ma possono insorgere danni permanenti, sintomatologie ritardate anche di sei mesi o un anno, e il contatto prolungato col petrolio può provocare alcuni tipi di tumore; nel frattempo, ogni giorno tre o quattro uomini finiscono negli hub della protezione civile per casi di insolazione, mal di testa e svenimenti.

Dalla settimana successiva al disastro, molti lavoratori del mare sono rimasti ovviamente senza impiego e, mentre alcuni di loro sono finiti a ripulire le coste, subendo le inumane condizioni di cui sopra, altri lamentano di essere stati ingannati dalla Repsol, che dopo averli fatti partecipare a degli appositi corsi di formazione e aver preso loro il numero di scarpe per gli stivali di gomma, ancora non li ha chiamati (e questo in una delle zone più povere del Paese).

NON SOTTOVALUTIAMO IL SOLE

Ogni secondo, nel nucleo del sole, seicento tonnellate di idrogeno si trasformano in elio attraverso un processo di fusione nucleare a una temperatura di quindici milioni di gradi: solo una minuscola parte di questa energia raggiunge la Terra superando l’atmosfera, ma due dati illustrano il potenziale del fenomeno:

  1. La quantità di luce solare che colpisce la superficie terrestre in un’ora basta a coprire il fabbisogno mondiale di energia per un anno;
  2. Meno dello 0,3% della superficie terrestre è sufficiente a ricavare dalla luce solare tutta l’energia di cui si ha bisogno. Si tratta di uno spazio più piccolo di quello attualmente utilizzato per l’estrazione dei combustibili fossili. Per fare un esempio pratico: se sopra il giacimento petrolifero di Ghawar, in Arabia Saudita, uno dei più grandi al mondo, fosse installato un parco solare, fornirebbe il doppio dell’energia rispetto a quella prodotta attraverso il greggio.

Da quando, nel 1954, i laboratori Bell realizzarono la prima cella solare moderna, la cui esosità ne permetteva l’utilizzo solo per i satelliti e per i giacimenti petroliferi (!), si è passati a un notevole abbattimento dei costi negli anni Novanta, e ad oggi il fotovoltaico è mille volte meno caro e il doppio più efficiente rispetto agli esordi.

Se da un lato è vero che vanno riequilibrate domanda e offerta e che l’energia solare richiede spazio, dall’altro va detto che, in generale per le rinnovabili, ma soprattutto per il sole, vale la legge di Wright (1936): raddoppiando la produzione, il costo per unità diminuisce di una percentuale fissa.

Inoltre, recenti ricerche dimostrano che realizzare dei pannelli solari non con i consueti alluminio e vetro, ma con la tanto vituperata plastica, può portare a parecchi vantaggi: la plastica pesa poco e può essere installata anche su tetti meno robusti, in più permette di riutilizzare nel riciclo preziose componenti come argento, rame e silicio.

Restando in tema di indici politici, è necessario un cambio di paradigma (nel dibattito socioeconomico) da green pass a green passion, e dall’immunità di gregge all’immunità di greggio.

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