Mentre l’ombra di un possibile conflitto mondiale rende la paura incubata durante la pandemia quasi tridimensionale, e mai come in queste terribili settimane vocaboli (e concetti) che pensavamo superati tornano ad affollare il dibattito politico, il web conferma la sua funzione amplificatrice dilatando all’inverosimile il complottismo, ma anche divenendo il porto sicuro di iniziative culturalmente importanti come quella che stiamo per raccontare.
Nella tragicità bellica, il tempo e lo spazio riguadagnano la loro dimensione fisica; credevamo di aver abbattuto i confini degli Stati Nazionali inaugurando un orizzonte temporale eternamente presente, ma i bombardamenti e la guerra di quartiere hanno risillabato la verità dei corpi e della terra.
Mentre la Rete, con la capacità di mimesi che le è propria, nasconde tutti i comportamenti tossici legati alla misoginia, che crescono di pari passo con lo sdoganamento della comunità Lgbtq+, a dimostrazione che l’etere ridefinisce gli estremi, non il sesso e nemmeno la coscienza politica legata ad esso, ma il discorso sul corpo (femminile) trovano su Internet la loro sede vacante, permettendo a intere comunità di confrontarsi su argomenti che sono (stati a lungo) tabù.
OUR BODIES, OURSELVES
Era il 1970 quando la neo-mamma Wendy Sanford, in piena crisi post-partum, venne invitata a un incontro sulla salute delle donne organizzato al Mit, restando letteralmente allibita di fronte agli argomenti trattati (orgasmi, masturbazione e via dicendo), e a una gigantografia d’un nudo femminile intento a mostrare la clitoride, mentre dei medici chiedevano alla platea, che non prevedeva uomini, se fosse al corrente che quello era il centro del piacere femminile, con buona pace di Freud e della psicoanalisi.
Già pochi mesi prima, Wendy aveva partecipato con alcune sue amiche ad un seminario a Cambridge dal titolo «Le donne e il loro corpo», dove le invitate si erano scambiate a lungo opinioni e impressioni, anche sul sapere medico nei loro confronti, in maniera del tutto naturale e spontanea.
Di lì a breve, queste esperienze confluirono in un opuscolo di 193 pagine, stampato in carta di giornale, dal titolo «Women and their bodies» e venduto al prezzo di 75 centesimi; il successo, culturale e non pruriginoso dell’opera, destò l’interesse della casa editrice Simon&Schuster, che si offrì di farne un libro, cui Wendy e le 12 donne che avevano partecipato al progetto, acconsentirono a patto che: il testo fosse tradotto anche in spagnolo (probabilmente per coinvolgere l’enorme comunità ispanica del Nord America); che restasse loro il controllo editoriale dello scritto; e che fosse venduto col 70% di sconto nei centri sanitari no profit.
Il volume uscì nel 1973: nel corso degli anni è divenuto un best seller tradotto in 33 lingue e, oltre ad aver venduto ben 4 milioni di copie, si è trasformato in una sorta di Bibbia del femminismo, ma ha anche segnato un passaggio cruciale nella storia della cultura femminile. Si trattava di racconti informali in prima persona, senza complesse nomenclature scientifiche, ma soprattutto di una narrazione di donne, fra donne e destinata alle donne, che sanciva quattro punti fondamentali:
- Il corpo femminile non doveva più essere visto come una banale macchina riproduttiva;
- Il libro si poneva contro il primato di una cultura medica androcentrica (una sorta di «medicalsplanning», per usare un termine post-moderno);
- Le donne rivendicavano il diritto, acquisito attraverso una nuova informazione meno tecnica e più empatica, di decidere liberamente della propria maternità, invece di subirla;
- Questo nuovo know-how le metteva in condizioni di poter testare l’effettiva competenza del personale sanitario con cui entravano in contatto.
Miriam Hawley (una delle autrici) disse: «non avere voci in capitolo ci ha frustrate e fatte arrabbiare. Non avevamo le informazioni di cui avevamo bisogno, quindi abbiamo deciso di trovarcele da sole.»
IL SESSO SPIEGATO, DA ALLAH ALLA Z
Sono passati undici anni dalla Primavera Araba ed ora, in questa difficile fase geopolitica, sulla Rete sorgono nuove iniziative che offrono consigli e informazioni alle donne sul loro corpo e sulla loro sessualità: da Nour Eman, attivista egiziana per la salute delle donne, nota con lo pseudonimo di Mother Being, e autrice di video su Instagram e Tik Tok, oltre che di un podcast sulla salute riproduttiva, al sito Mauj, che oltre a pubblicare articoli divulgativi su argomenti tabù, vende sex toys e tutela i diritti della comunità Lgbtq+, passando attraverso il progetto panarabo «Assault Police», che dal 2020 permette a migliaia di vittime di violenze sessuali di confrontarsi ed aiutarsi (e parliamo di un seguito di 350 000 persone che rivela, a contrario, la gravità del fenomeno), fino a Shrouk el Attar, un’ingegnera queer sempre egiziana, che con l’account «The dancing queer», e un’avveduta richiesta di asilo in regno Unito, conduce il talk «El kanaba» (il divano), dove promuove una campagna a favore del gender fluid.
Poco più di un anno fa, il caso di una ragazza morta durante un rudimentale intervento di infibulazione e quello d’una (presunta) adultera suicidatasi per sfuggire a un pestaggio da parte di tre uomini, hanno gettato la luce dell’attenzione mondiale sulla condizione della donna nei moderni Stati arabi.
Dalla tradizione del patriarcato, fondato sulla triade Stato, strada e casa, passando attraverso il detto attribuito a Maometto secondo cui «gli angeli maledicono una donna che rifiuta suo marito», i progetti per introdurre l’educazione sessuale nelle scuole sono fermi e l’onore delle famiglie è ancora legato alla verginità di una donna; le impressioni riportate sui social, anonime, liquide e meno perseguibili, raccontano di donne che non hanno mai sentito parlare della parola «clitoride», che non concepiscono né il sesso prima (o fuori) dal matrimonio, né una visita ginecologica pre-nozze perché temono d’essere prematuramente deflorate, per non parlare dell’enorme ignoranza sulla maternità e sui contraccettivi che ad oggi ha innalzato a 40% il numero di gravidanze indesiderate, soprattutto nelle adolescenti.
La vergogna legata alla masturbazione e alle mestruazioni, più una serie di auto-limitazioni imposte dalla crasi regimi militari/fanatismo religioso che, in nome della rispettabilità e della fede, hanno reso il piacere femminile e la conoscenza del proprio corpo, inutili protesi del piacere maschile, sono i fantasmi contro cui si scagliano queste iniziative on line, puntando su uno stile diretto ed efficace, ma anche sul parere di ostetriche e ginecologhe intente a rimuovere una secolare rete di pregiudizi come quello, diffusissimo, che l’assorbente interno possa lacerare l’imene, o che il vaginismo che coglie molte donne arrivate vergini alla prima notte di nozze sia il sintomo di una frigidità o di un problema irrisolvibile, laddove si tratta soltanto dell’irrigidimento delle pelvi dato dal terrore della penetrazione in chi è cresciuto col mito della verginità.
Simbolo (in)discusso della nuova primavera araba, e della rinascita del corpo femminile, per ora solo on line, è un oggetto ancora fuori legge in molti paesi mediorientali, ideato dalle due fondatrici di Mauji («onde» in arabo) nel 2021: si tratta di Deem, il vibratore discreto che entra nel palmo di una mano e che si può acquistare sulla Rete a prezzi modici. A suggellare la protesta, anche estetica, di un dolore contratto nei secoli, o segno di un disagio tutt’altro che risolto, Deem è a forma di lacrima.