La regista Michela Occhipinti, documentarista di pregio («Lettere dal deserto»), coadiuvata alla scrittura dalla fedele Simona Coppini, realizza il suo primo lungometraggio che esordisce alla Berlinale del 2019, e lo fa mettendo a frutto la propria curiosità di nomade, profondamente radicata in famiglia: nonno algerino, padre tunisino, fratello egiziano.
Nato da una riflessione sulla giovinezza che svanisce e sul come invecchiare «con saggezza e un po’ di grazia», «Il Corpo della Sposa» infila la macchina da presa in uno dei temi più dibattuti, retorici, e potenzialmente strumentalizzabili di sempre, e cioè il corpo femminile, ma il suo rifuggire qualsiasi esplicita metafora sociale, o meta-cinematografica, pur conservando lo stile documentaristico che si accende in aperture liriche grazie alla bellissima fotografia di Daria D’Antonio, trasforma l’opera in una convincente critica al tribalismo di certe nazioni africane e al loro persistere nell’attuale società, dove la complessità non è sempre sinonimo di modernità.
TRAMA
Verida (il cui significato è «unica») è una sedicenne che vive a Novakchot, un lembo di terra fra il Maghreb e l’Africa nera, e capitale della Mauritania: è un’adolescente vivace che divide il suo tempo fra il centro estetico della nonna, dove lavora come brillante apprendista, e due sue amiche, una delle quali vorrebbe trasferirsi a Parigi, mentre l’altra sogna di diventare programmatrice frequentando dei corsi universitari al Cairo.
A fianco al riconoscibile universo di qualsiasi ragazza «globalizzata», fatto di pop star, cellulari, e dei bizzarri corteggiamenti da parte dei coetanei che avvengono tramite ricariche telefoniche, c’è la famiglia di Verida, con un padre improvvisatosi cercatore d’oro e una madre affettuosa ma autoritaria che spera in una vita migliore per lei e la sorella minore.
La svolta avviene quando i genitori di Verida le comunicano che ha tre mesi per ingrassare di almeno venti chili, visto che è stata promessa sposa al rampollo d’una ricca famiglia che lei nemmeno conosce; d’improvviso siamo catapultati in una tradizione antichissima e brutale, che fa scivolare la protagonista in un incubo anacronistico e ossessivo, tallonata da madre e nonna affinché prenda peso e diventi più bella per il futuro sposo, e al tempo stesso schernita dalle due amiche, già proiettate (almeno potenzialmente) verso un futuro di emancipazione.
L’inevitabile scontro generazionale che ne consegue, in uno scenario sottilmente crudele ma mai sadico, permette l’identificazione con la ragazza fino all’epilogo, metafisico e poetico, che apre a una speranza individuale, priva di qualsiasi connotazione politica in senso stretto.
GRASSO È BELLO
«Se tu non mangi, tu non puoi morire», sussurrava un demoniaco Ugo Tognazzi nel capolavoro viscerale di Ferreri, «La Grande Abbuffata», e ne «Il Corpo della Sposa», il cibo torna come fenomeno culturale ed estetico, simbolo di una ricchezza che non abita i calcinati mercati né i tuguri in muratura, o le strade sventrate dove pascolano mucche o capre.
Il «dreg dreg», o «gavage», è proprio l’ingrasso («flesh out, rimpolpare, il sottotitolo della pellicola) cui vengono sottoposte le promesse spose in Mauritania, affinché raggiungano il quintale e oltre di peso in tre mesi o poco più, e i dieci pasti al giorno che consuma Verida controllata da sua madre, con tanto di pesa periodica, sono una piaga tuttora diffusa in quella parte d’Africa stretta fra il deserto e l’Atlantico.
«Alzati e mangia», è la prima battuta del film, scandita dal primo piano degli occhi espressivi di Verida, col resto del viso coperto dalla ciotola dell’iperproteico latte di capra; cous cous arricchito con polmoni, cuore e gobba di cammello, frattaglie acquistate in una macelleria priva delle più elementari norme igieniche, in uno Stato afflitto da un’estrema povertà, dedito all’islamismo e in cui l’ateismo è punito con la morte. I lecca-lecca e le caramelle che la ragazza mangia di nascosto (alcune delle quali donatele dal «pesatore» Sidi, che nel frattempo si è innamorato di lei) sono gli infantili simboli di una ribellione che la bravissima regista accoppia alle bambole, rigorosamente bionde e caucasiche, spesso disseminate sul pavimento in terra battuta, o appese a testa in giù nelle bancarelle degli ambulanti.
Agli esperti di alimentazione non sarà sfuggita l’equivalenza fra il gavage culturale della Mauritania, e l’operazione discutibile che si attua sulle oche per produrre il foie-gras, inchiodando loro le zampe e nutrendole a forza con dei tubi finché il fegato non collassa: in entrambi i casi il procedimento dura tre mesi, e c’è un passaggio nel film in cui Verida, ormai esausta, viene condotta da sua madre in una «fat farm» nel deserto, dove tre bambine vengono costrette da una vegliarda a ingozzarsi di latte, e persino a bere quello che hanno rivomitato, mentre la vecchia tiene loro imprigionati i piedi fra due dolorosi listelli di legno.
Accadrà anche alla protagonista del film di acquistare al mercato nero delle medicine dopanti per animali, quando capirà di non riuscire a ingrassare quanto dovrebbe, abitudine diffusissima in Mauritania, nonostante tali sostanze siano ufficialmente illegali, poiché portatrici di malattie cardiovascolari, ictus e diabete.
MADRE CONTRO MADRE, DONNA CONTRO DONNA
«Il Corpo della Sposa» è un film totalmente declinato al femminile: tranne il padre cercatore d’oro che regalerà a sua figlia una piccola pepita come portafortuna, e il romantico Sidi, sinceramente attratto da Verida, tre generazioni di donne si scontrano (e confrontano) in quanto custodi di una tradizione che le umilia e definisce al tempo stesso.
Abile artigiana d’hennè, la nonna massaggerà il braccio della nipote con un pettine sulla pelle dorata di sabbia esclamando: «quando sarai piena di smagliature e grassa sarai bellissima», mentre la madre si sveglierà alle tre di notte per prepararle i pasti, infernali nella loro reiterazione, anche se l’apologia di questo mondo femminile capovolto si avrà nella cerimonia del «wangala», sorta di festino muliebre dove la gozzoviglia alimentare si unisce alla danza e le forme, accentuate dai veli, celebrano un ideale estetico antitetico alla taglia 36 delle modelle occidentali.
Verida non può osservare il velo nuziale prima del matrimonio, né scoprire il capo «altrimenti ti vedono gli angeli» ma, come le sue amiche, sogna una pelle candida come quella delle bambole, pensando che gli uomini la preferiscano, ed effettivamente una delle maggiori piaghe sanitarie, non solo in Africa ma anche nei Caraibi e in Estremo Oriente, sono le creme sbiancanti che, nonostante siano ufficialmente illegali come i prodotti veterinari per il gavage, continuano ad essere usatissimi dalle donne africane fra i 21 e i 35 anni (in Nigeria il 77% della popolazione femminile ne abusa), che ne ignorano spesso le controindicazioni (acne, ferite permanenti in viso e cancro alla pelle), perché analfabete, o semplicemente non se ne curano.
Qualche anno fa in Costa D’Avorio ci sono stati molti decessi durante i parti cesarei perché l’uso di creme sbiancanti assottiglia lo strato cutaneo e i punti di sutura non tenevano, provocando emorragie.
«Siete fortunate», sentenzia la nonna di Verida, in uno dei rari momenti di autoanalisi del film, parlando del «leblouh» e cioè del proto-gavage cui erano sottoposte lei e le sue coetanee, una sorta di full (food) immersion a base di un intero capretto arrostito da consumare in una notte insieme a sedici litri di latte: «io sono stata forte, mia sorella è morta».
Nell’era del body shaming e dei volti sfregiati dall’acido, segni di una frustrazione patriarcale (speriamo) destinata a sparire, l’obesità rituale della Mauritania, come lo sbiancamento della pelle, sono le offese, etiche ed estetiche, di una cultura matriarcale autoreferenziale e autolesionista che, invertendo il canone di bellezza dell’Occidente, rivelano da un’opposta angolazione le stesse tare dell’anoressia e della bulimia, cercando di riempire l’oscuro tabù della Fame con un’abbondanza posticcia e degradante.
I rituali di controllo del corpo sono sempre politici (basta pensare all’infibulazione), soprattutto quando si autodeterminano tramite secolari condizionamenti e l’unico modo per smarcarsene è dimenticarsi di avere un corpo: la cancellazione dell’immagine della protagonista, ricoperta dalla sabbia della marea calante, è la perfetta metafora di quell’oblio anarchico, condizione unica di una vera rivolta politica.