È già da qualche anno che la creatura di Mark Zuckerberg è al centro delle polemiche mondiali: dall’accusa di favorire i democratici all’elezione (secondo molti pilotata) di Trump, fino alle critiche sulla scarsa protezione dati degli utenti e al macro-problema fiscale, europeo e non. Eppure, Facebook ha sempre retto, soprattutto dal punto di vista finanziario, e di recente ha rilanciato varando Meta, primo passo verso il Metaverso, e per gli analisti più attenti, geniale manovra di marketing.
Sta di fatto che nell’ultimo resoconto dei risultati trimestrali, il colosso californiano ha spazzato via dalla capitalizzazione della società ben 232 miliardi di dollari, scendendo (si fa per dire) a 1,93 miliari di utenti e perdendo numeri importanti soprattutto in Africa, America Latina e India; ma quali sono le ragioni di questo campanello (notifica) d’allarme?
L’ALTRA FACCIA DI META
Se è vero che il lockdown ha aumentato le utenze on line, e la concorrenza, è altrettanto vero che Instagram esce malconcio dal testa a testa con Tik Tok, anche perché il principale strumento creato per arginare gli antagonisti cinesi, e cioè i Reel (video da un minuto circa) sono difficili da monetizzare, in quanto le pubblicità non sono inserite nel contesto, ma fra un video e l’altro.
Inoltre, sulle recenti versioni di iOS di Apple, applicazioni come Facebook devono chiedere esplicitamente agli utenti le loro informazioni per permettere a una società di terze parti (come Meta) di fornire pubblicità mirate, cosa che sta stornando molti inserzionisti sul porto (per loro) più sicuro di Google, che comunque può reperire dati preziosi sui suoi utenti dall’omonimo motore di ricerca, tramite le parole-chiave che digitiamo, o attraverso Android.
Nel 2022 Facebook potrebbe perdere, per questa innovazione di Apple, ben 10 miliardi di dollari, mentre persino Snapchat se la caverà meglio di Meta and co.
Restano altre due problematiche piuttosto serie per Zuckerberg.
La prima, che potremmo definire «di visione», riguarda il Metaverso, su cui la multinazionale sta investendo molto ottenendo dei buoni risultati, vedi il miliardo di dollari incassato con Quest 2, il nuovo visore di realtà virtuale, ma che in termini di grandi numeri stenta a decollare.
La seconda spina nel fianco è invece di natura culturale e riguarda la perdita dei più giovani, fenomeno non imputabile solo alla concorrenza, ma anche a una naturale «stanchezza» del social media, oltre che a un’ovvia saturazione del mercato.
TIMEO «FACEBOOK» ET DONA FERENTES
Fino a dieci anni fa Bruxelles, secondo centro mondiale del lobbyng dopo Washington, era bersagliata dai lobbisti di Big Pharma e Big Oil, mentre ad oggi è Big Tech a (far) dettar legge con 452 persuasori in attività, 97 milioni investiti ogni anno e ben 612 società tecnologiche coinvolte: in testa c’è Google con 6 milioni di euro l’anno, subito dopo Facebook che con 5 milioni di euro e 14 lobbisti a tempo pieno, ha quintuplicato i suoi sforzi pecuniari.
L’azienda californiana finanzia i principali think tank vicini ai gruppi politici di riferimento (più in generale, 14 dei massimi think tank di Bruxelles prendono soldi da Big Tech) e non si fa problemi ad intervenire con specifiche azioni ad hoc quando si sente minacciata da qualche proposta di legge, inoltre è nota la sua strategia di assumere fra le proprie fila (file) ex ministri, ex premier, ex commissari, anche grazie alla riluttanza della Commissione Europea nell’impedire conflitti d’interesse.
Di fatto, ad oggi, il 90% dei lobbisti di Facebook proviene dalla politica (vedi Aura Salla, ex consigliera europea finlandese o Nick Clepp, ex vice Primo Ministro britannico) e il duopolio Google/Facebook sulla pubblicità on line (rispettivamente 147 e 84 miliardi di dollari) presenta un problema d’ordine socioculturale, ma anche di sicurezza: Facebook, e più in generale Big Tech, non sono disposti ad investire per limitare la propagazione di contenuti dannosi.
La questione, che sembra semantica e che in realtà è molto concreta, è che Facebook non ha un interesse specifico a diffondere fake news o a veicolare estremismi, ma siccome il criterio con cui raccoglie pubblicità è il tempo passato su una data piattaforma (e le persone tendono genericamente a soffermarsi di più su contenuti scabrosi o polarizzanti), l’algoritmo finisce col premiare i siti più discutibili e alcune imprese, in base proprio alla scelta dell’algoritmo, per finanziarli indirettamente.
A gennaio il Parlamento Europeo ha approvato il Digital Market Act e il Digital Service Act, che nei prossimi 5 mesi, raggiunto l’accordo con tutti i capi di Stato, diverranno i fondamenti della prima legislazione digitale europea: il primo documento tende a limitare la libertà di manovra indiscriminata delle grandi piattaforme, il secondo a proteggere i diritti degli utenti, rimuovendo i contenuti illegali.
La Commissione Europea vigilerà, controllando, autorizzando esenzioni e imponendo sanzioni ed anche se si tratta di una legislazione più «annacquata» rispetto alle iniziali intenzioni, in parte proprio grazie, o a causa, del lavoro dei lobbisti di cui sopra, è un primo passo per frenare l’incipiente «digitocrazia».
Forse dovremmo tutti ricordare le parole di Laocoonte ai Troiani, prima che aprissero le mura al cavallo di Troia: «Timeo Danaos et dona ferentes», temo i Greci anche quando portano doni.
FACEBOOK ITALIA
Appoggiandosi a Binario F, 900 metri quadri alla stazione Termini poi virato in Rete per la Pandemia, in Italia Facebook macina 38 milioni di iscritti pagando allo Stato il misero obolo di 1,7 miliardi l’anno; il Consiglio di Binario F è costituito da banchieri, politici, insigni accademici e di recente anche dal Presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, quindi, anche nel Belpaese il Gruppo di Menlo Park instaura un rapporto privilegiato con la politica e la cultura ufficiale.
Binario F, ma anche l’Istituto Italiano Privacy (e attraverso di lui il Centro Italiano anti Cyber Bullismo) formano, promuovono corsi sulla privacy e sulla tutela dei minori, sull’utilizzo dei social ai fini delle campagne elettorali, oltre a finanziare eventi culturali di vario genere (si sono serviti di Binario F anche la Reggia di Caserta e il Teatro San Carlo di Napoli).
Pa Social, un’associazione di comunicatori esperti in social, è invece il tramite di Facebook con le istituzioni (su tutte l’Anci), si occupa di formare la Pubblica Amministrazione sull’uso dei social coi cittadini e a settembre ha lanciato la Fondazione Italia Digitale, che sarà centrale per la transizione digitale finanziata dai fondi del PNRR.
La parola d’ordine di tutto l’apparato formativo-promozionale di Meta è «gratuità»: ma nell’era della democrazia più sublimata che liquida, è ormai chiaro, soprattutto ai più giovani, che se non c’è un prezzo da pagare sul piatto della bilancia va la propria identità (reale e virtuale).