È il 2019 quando la coproduzione italo-francese «Selfie» raggiunge la Berlinale e vince il David di Donatello come miglior documentario; il mondo non è stato ancora immobilizzato dalle invisibili ganasce della pandemia e l’opera, girata con due i-phone per l’intuizione del regista pugliese Agostino Ferrente («Le Cose Belle»), di rendere soggetto filmato e filmante un tutt’uno, si candida ad anti-Gomorra, più come gesto formale che come presa di distanza ideologica.
Letteralmente (e letterariamente) saccheggiata negli ultimi anni da cinema e serie, che ne hanno restituito un’immagine a tratti patinata, a tratti crudissima, ma senza mai uscire da una rappresentazione icastica, e quindi piatta, la città di Napoli, e nel dettaglio il Rione Traiano, diviene qui un semplice sfondo per le pose degli adolescenti scelti da Ferrente che, responsabilizzandosi attraverso il ruolo di registi, trasformano una narcisistica patologia in un involontario tentativo d’autoanalisi.
Gli adulti non esistono, sono davanti o dietro lo schermo del cellulare-macchina da presa, troppo distanti dalla testimonianza a-critica di un’immagine che non fa in tempo a elaborarsi in metafora, e proprio per questo sfiora il simbolismo: c’è uno scarto sottile fra il video caricato in Rete, più o meno violento, più o meno lirico, e quest’esperimento social(e) ed è proprio il travestimento che il selfie opera su sé stesso, da immobilità studiata a crudele auto-fiction, come se un pittore non si limitasse ad autorappresentarsi in un quadro, ma si animasse raccontandocene il pathos.
TRAMA
L’amicizia fra Alessandro e Pietro, tenerissima e priva del lugubre alone iniziatico di tante adolescenze partenopee, si racconta attraverso i cristalli di un i-phone: l’obesità compulsiva del secondo, aspirante barbiere ma di fatto disoccupato, e la ricerca di bellezza del primo, più consapevole dei limiti della propria esistenza, e in grado di capire che parlare di Camorra è già concedere qualcosa che non si fermi alla semplice cifra narrativa ma si estenda al fattore identitario; il corteo evocato dai due ragazzi, e sapientemente diretto dall’eminenza grigia di Ferrente, sgrana come un rosario (quello dei tatuaggi di entrambi gli attori) tutti i cliché cui siamo abituati, ma la modalità «selfie in movimento» (selfiction), attua la trasformazione da spettatori-vittime a testimoni, che la normale registrazione meccanica di un evento, non avrebbe mai colto.
Lo scenario è una torrida estate del 2017, ma il racconto viene forato dalla morte, avvenuta nel 2014, del coetaneo Davide Bifolco, freddato alle spalle da un carabiniere che lo aveva scambiato per un latitante, tragedia di quartiere che portò il fratello Tommaso a morire d’infarto dopo cinque giorni di astenia e insonnia. L’altarino del ragazzo, kitsch e iperreale come le edicole mariane e le statue di Padre Pio a guanti tagliati che s’intravedono spesso sullo sfondo, è meta di pellegrinaggio per Alessandro e Pietro e simbolo, per l’intera comunità, dell’identità fra destino individuale e sociale, che accomuna tutti gli spettri di periferia.
Pietro prova a raccontare la malavita minorile in un paio di scene (impressionante quella delle pistole), mentre Alessandro se ne chiama fuori al punto che fra i due si creerà una temporanea frattura artistica, e ideologica, ma un bagno a Posillipo e il compleanno di Pietro ristabiliranno una fratellanza destinata a durare perché costruita sulle reciproche fragilità, e non sul discutibile bilanciamento di preimposti rapporti di forza.
IMMOBILITÁ
La plasticità pittorica cercata nelle pose di gruppo da Alessandro e Pietro, involontari eredi del Barocco, si frantuma negli improvvisi pianti (primi pianti), e nella fissità dell’inquadratura che impone un’espressione anti-naturalista confinante col panico: è evidente la mano di Ferrente, attento nel precisare che la sua è stata tutt’altro che «una delega registica», così come è chiaro quanto la spontaneità possa perdersi di fronte al divorante specchio della tecnologia, ma proprio l’impurità postmoderna dei minorenni di Rione Traiano, dona verità a una pellicola che riflette sé stessa attraverso l’antiquata televisione o l’eterna diretta di You Tube.
L’immobilità del selfie, che non è fotografia ma composizione, mima l’immobilismo sociale d’una miseria che proprio attraverso una finta adesione ai topos gomorriani, figura una possibile speranza: nell’interpretazione che Alessandro dà de «L’Infinito» di Leopardi (il cui rifiuto d’imparare a memoria gli era valsa l’espulsione da scuola), come d’un muro oltre il quale non lui ma forse i suoi figli riusciranno a guardare, c’è la condanna definitiva alle istituzioni tutte, inclusa e soprattutto la scuola, loro si paralizzate nella riproposizione d’una sterile cultura incapace di ibridarsi al fluido vitale dei ragazzi.
Alessandro e Pietro ricordano, nella loro stasi autoanalitica, i grotteschi personaggi di «Cinico tv», ferocemente incalzati dalla voce fuori campo e allo stesso tempo costretti, quasi infilzati dalla perizia da entomologo del regista, a restare nell’inquadratura.
Ma l’immagine qui è mossa, la modella fa cadere il vestito, e il selfie si sbriciola rifiutando la compiutezza della cronaca: qualcosa filtra oltre i dialoghi fra le ragazzine che sognano l’amore d’un camorrista, o il ragazzo che derubrica lo spaccio ad attività destinata alla galera e a due nemici (lo Stato e la Concorrenza, più pericolosa la seconda perché letale), ed è l’idea di un possibile cambiamento contro una tradizione, o anti-tradizione, che qui sembra assente.
Nella latitanza d’un passato, e d’uno sfondo, che non è mai cambiato, lo sguardo dei ragazzi di Ferrente scompagina il selfie come fermo-immagine, e ciò che ne resta è proprio il loro occhio che fissiamo attraverso la parete oscura della stanza degli interrogatori: «nei film ci sono sempre musiche neomelodiche, no?», sussurra Pietro seminudo su un letto maculato, inconsapevole parodia d’un boss à la Good Fellas, «bè, io voglio metterci un po’ di musica classica invece».