America Latina: il cinema a metà dei fratelli D’Innocenzo

da | Feb 10, 2022 | MONDOVISIONE

Dopo il successo de «La Terra dell’Abbastanza» e l’Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura di «Favolacce», i gemelli D’Innocenzo si cimentano in un film «dritto», come spesso l’hanno definito nelle pittoresche interviste in cui le loro voci romanesche si sovrappongono in una crasi Capital-chic, che rifugge il bozzettismo e la frammentarietà, assestandosi a pieno merito nel genere thriller psicologico.

Le intenzioni intimiste del duo romano, che firma sia la regia che la sceneggiatura, sono presto svelate dalla locandina del film in cui la testa calva del protagonista (Elio Germano) si apre come un uovo, a simboleggiare la fragilità della sua psiche (blaster Eggs più che Easter Eggs), e dalla scelta dei Verdena come commento sonoro, band icona dell’alternative tricolore e notoriamente lontana dai riflettori del Gossip.

Confermata la coppia Carnera/Cantini Parrini, rispettivamente alla fotografia e ai costumi, come nei due lavori precedenti, Damiano e Fabio trasformano l’obiettivo della macchina da presa in una lente disturbante in grado di penetrare la vita, e il volto, del protagonista in ogni sua imperfezione; città «emersa» dalla bonifica di fascista memoria, Latina è patria d’elezione dei gemelli (i loro genitori vivono lì) e teatro di posa d’una pellicola che fa proprio del rimosso e del sotterraneo la propria cifra espressiva.

Già la critica si divide e il pubblico invoca il capolavoro o il flop, ma i D’Innocenzo, da bravi artigiani della sensazione, sono così intrisi di cinema da non avere tempo per le polemiche e, quando se ne saturano, si passano il testimone (microfono), senza mai svelare chi è lo stunt man dell’altro.

TRAMA

Il dentista Massimo Sisti è un serio professionista che vive a lavora nella periferia di Latina; padre affettuoso e marito fedele, conduce un’esistenza sobria permettendosi qualche uscita col suo amico Simone (Maurizio Lastrico) e qualche visita al padre, col quale sembra non avere affatto un buon rapporto.

La sua vita cambia d’improvviso quando scopre in cantina una ragazza legata e imbavagliata che non risponde alle sue domande e lo aggredisce mentre cerca di liberarla, Massimo decide di non parlarne con la moglie e le figlie, almeno fino a quando non avrà capito chi è l’autore di quel sequestro orchestrato proprio a casa sua. I primi sospetti si rivolgono verso Simone, al punto di arrivare a pedinarlo, quindi verso il padre, che si intuisce abbia avuto un passato non proprio cristallino, ma nel frattempo l’alcol e gli psicofarmaci, qualche flessione sul lavoro e i sempre più frequenti black-out, sembrano lasciare presagire una realtà alternativa.

Il rapporto ambivalente instaurato con la prigioniera, a tratti affettuoso, a tratti aggressivo, e il sospetto che la famiglia abbia scoperto il suo segreto, spingono Massimo sull’orlo del baratro mentre il più (in)aspettato degli epiloghi prende forma attraverso una sapiente costellazione di indizi, e una scena che omaggia il miglior horror d’autore Made in Italy.

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA (LATINA)

Ingannevole è il titolo più di ogni altra cosa, visto che non ha nulla a che fare col continente sudamericano ma unisce l’amore anglofilo dei D’Innocenzo alla città cui sono legati: film di luoghi e sopralluoghi, «America Latina» crea una periferia fittizia con la precarietà temporale e spaziale di alcune metropoli cinematografiche a stelle e strisce, coi suoi luna park dismessi, i dinosauri in plastica, le case abbandonate e un’umanità che si asciuga beckettianamente a pochi personaggi paradigmatici.

Gigantesco Elio Germano (e sfido chiunque a trovare un passo falso nella sua cinematografia), funzionale e ambiguo Lastrico, eteree e intermittenti Astrid Casali, Carlotta Gamba e Federica Pala, perfetto nei suoi chiaroscuri Massimo Wertmüller (già provinato per La Terra dell’Abbastanza).

Come nella migliore cinematografia degli ultimi anni, che ha anticipato o raccontato la pandemia (a volte inconsapevolmente), la coprotagonista di Elio-Massimo è la casa, una villa assurda metà piscina metà tunnel dell’orrore che rappresenta plasticamente la scansione fra sopra e sotto dell’intera pellicola: il piano di sopra, la luce a vetrate e l’armonia piccolo-borghese, il piano di sotto, la cantina coi suoi segreti ipogei e gli spettri mentali del protagonista, e per passare da un piano all’altro, un assurdo viale esterno stile rampa d’una pista automobilistica, a indicare il disvelamento d’ogni ruolo sociale e il continuo contatto coi nostri fantasmi, fino all’agnizione, fino alla follia.

«Viaggio al termine di un uomo, più che della notte», affermano i fratelli di Tor Bella Monaca, rileggendo Cèline (che Germano ha portato a teatro qualche anno fa), ma anche un’opera che arriva alla suspense del thriller attraverso l’amore e le sue variabili impazzite, infine un titanico lavoro sulle luci, sul dentro e il fuori, senza campi medi né compromessi, da cui traspare una tenerezza che affiora, come tutti i sentimenti, dai suoi contrari.

Acque nere scorrono ancora sotto l’Agro Pontino, ideologie spezzate ma mai veramente sopite, violenze trattenute pronte a deflagrare allo stadio o sugli slogan in spray nero, e Massimo Sisti col suo Suv e la vita perfetta solo in apparenza, è il prototipo di una fragilità postmoderna che mal si accosta allo stereotipo maschile del capitalista 3.0; Elio Germano ha ringraziato a più riprese i due registi per la libertà espressiva, faticosa ma necessaria, che gli hanno concesso, sfuggendo cloni o golosi tentativi di auto-mimesi che inaugurano il manierismo, perché solo in questo modo si può fare un determinato cinema di ricerca, che sfugge all’assioma d’un prestabilito target produttivo.

METACINEMA O CINEMA A METÁ

«Rifuggiamo gli psicologismi e agiamo in modo istintivo. Vogliamo lasciare aperto il dialogo con il pubblico, per questo alla fine non tutto è stato spiegato o compreso. I nostri film durano solo 90 minuti, come le partite di calcio, ma è il nostro modo per non metterci la parola fine, per continuare a vivere con gli spettatori.»

In questa affermazione di Fabio e Damiano, che trascende «America Latina» e s’impone come cifra estetica del loro cinema, si racconta una concezione di rappresentazione che nel flirtare continuo con lo spettatore, non si limita a mostrare i fili delle marionette, ma glieli mette in mano. Mentre guardiamo le loro pellicole (sicuramente «Favolacce» e «America Latina», un po’ meno «La Terra dell’Abbastanza») siamo così affascinati dalle inquadrature e dal senso della luce, dalle trovate tecniche e dalla sapienza del set, da dimenticarci della storia, e finiamo per diventare come quei genitori che alla recita del figlio ne temono l’esordio, pur rispettandone la bravura.

Cinema di continui esordi, mai rassicurante, per loro che lo fanno e per noi che lo guardiamo, quella dei D’Innocenzo è una mito-proiezione (più che una mito-poiesi) che incuba film da altri film, nel cerchio chiuso, per quanto sterminato, delle loro visioni di cinefili, e che nella sua imperfezione, è la perfetta descrizione di un’era in cui il confine fra sogno, finzione e realtà, si è sfaldato e la catarsi è impossibile: non possiamo mai dimenticare che la macchina da presa è lì con noi, e che solo attraverso il suo schermo (come quello di qualsiasi device) possiamo concepire, rimasticare e accettare le nostre vite ingoiate dal simbolico e trasformate in doppi pixelati da apporre alle pareti della platoniana caverna.

È proprio la storia il limite di «America Latina», che non ha niente di originale e la cui sottotrama si intuisce quasi subito, ma anche volendo dare l’alibi del giallo esistenziale alla Dürrenmatt, in cui l’assassino si svela già nelle prime pagine, manca un serio approfondimento dei personaggi minori, che è la chiave del cinema di genere tanto amato dai due fratè(lli), e restano alcuni buchi che destano più perplessità che curiosità. È perfetta l’ambiguità del padre di Massimo, ma chi è la vittima afasica in cantina e quale ruolo ha veramente Simone?

Il cinema continua sui social, con ipotesi e depistamenti, rendendo l’intero pubblico una massa critica che accresce la pellicola, al punto che da tempo ormai la superfetazione dei commenti su You Tube supera concettualmente il contenuto pubblicato, generando doppi.

I D’Innocenzo hanno in post-produzione «Travel Well Kamikaze», un’opera lisergica girata con camera a spalla a Los Angeles, che vorrebbero trasformare in un film da 8 ore alla Béla Tarr.

Con tutti i difetti del loro cinema, perfettamente in linea con la patologia estetica della modernità, lunga vita alla macchina da presa dei D’Innocenzo, che hanno ancora il coraggio di sbagliare, lunga vita alla nuova carne, lunga vita alla meta-cinematografia e al cinema a metà, ecolalico, dei gemelli romani.

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