Nel 2021 sono state somministrate circa 10 miliardi di dosi di vaccini contro il Covid nel mondo: la copertura è stata del 77% nei paesi ricchi, con 4 miliardi di persone completamente vaccinate e il 60,9% della popolazione raggiunto almeno dalla prima dose.
In Europa sono state salvate 470 mila vite fra le persone con più di 60 anni (negli Usa 1,1 milioni) e in Italia, complessivamente 27 034, con 130 mila ricoveri evitati, di cui 15 mila in terapia intensiva. Le fonti sono riviste scientifiche accreditate (non pre-print), l’Associazione Italiana di Epidemiologia e l’Ecdc, l’European Centre for disease control.
Gli esperti danno un giudizio complessivamente positivo sui vaccini, soprattutto in termini di qualità e velocità di produzione, anche se hanno generato un’immunità imperfetta e poco duratura, come avviene per i raffreddori, e non totale e a vita, come per i vaccini dell’infanzia. Resta il problema dell’Africa (copertura ferma al 10%), la cui situazione rimane grave, anche per la decisione di Pfizer e Moderna di non rinegoziare il proprio prezzo a suo vantaggio, ma anche quello d’una Cina che continua a seguire la politica dei contagi zero, nonostante una popolazione poco toccata e un vaccino debole, per non parlare degli Stati Uniti dove la strumentalizzazione politica del Covid ha ridotto la copertura in alcuni Stati al 50%.
Mentre anche il Papa lancia un monito a non utilizzare la pandemia come pretesto per omissioni e trascuratezze nella sicurezza sul lavoro, l’appello è quello a una comunicazione più responsabile, che non bypassi la scienza, e a una maggiore uniformità di prezzo dei vaccini (la cui produzione nel 2022 dovrebbe raddoppiare), ma anche a non vedere Pfizer, Moderna e Astrazeneca come una panacea universale, visto che molto resta ancora da fare, anche in termini di infrastrutture sanitarie e raccolta dati.
BREVETTARE È MEGLIO CHE CURARE
La classifica dei farmaci contro il Covid più diffusi al mondo (calcolata in miliardi di dosi) vede Astrazeneca in testa, nonostante la pessima fama, quindi Sinovac, Pfizer, Sinopharm, Moderna e Johnson & Johnson, poi lo Sputnik e via seguendo: in un recente studio pubblicato sul Journal of The Royal Society of Medicine, il sociologo Donald Light ha fatto luce (nell’etimo) sul rapporto fra costi di produzione e vendita di Big Pharma, concludendo che i primi si aggirano sugli 0,5 dollari a dose per Astrazeneca, sugli 1,8 per Pfizer e 2,28 per Moderna, mentre quelli di vendita si assestano sui 2 dollari per Astrazeneca, 15 Pfizer e 25 Moderna.
Ricarichi 4/10 volte il costo, a dimostrazione lampante di come le multinazionali farmaceutiche speculino sul monopolio garantito loro dai brevetti, dimenticando l’evidente paradosso che nega ai medicinali lo status di merce: meno se ne vendono e meglio è, perché più se ne vendono più, in senso strettamente scientifico, la medicina ha fallito.
Altri due punti di fragilità del sistema farmaceutico, italiano e globale, sono che la crescita vertiginosa dell’offerta di medicinali toglie valore alla prevenzione e che l’onnipotenza chimica (presunta) scredita l’autorevolezza medica (destinata ipso facto ad essere smentita) e al tempo stesso ci rende più fragili e dipendenti, per ogni sintomo, ad un determinato tipo di pillola.
Le tare legate ai brevetti sono invece:
1)Attualmente sono concessi troppo facilmente e basta un principio attivo leggermente diverso, ma pur sempre efficace, per creare dozzine di farmaci-fotocopia (magari a prezzi più alti) che non vengono sfoltiti da studi comparativi;
2) Le aziende farmaceutiche destinano la maggior parte dei propri profitti al marketing piuttosto che alle ricerche di base;
3) Spesso i nuovi farmaci sono il risultato di studi effettuati in laboratori esterni (se pubblici, finanziati dai contribuenti) acquistati, brevettati e rivenduti a caro prezzo;
4) Nonostante in passato sia successo, gli Stati non stanno eliminando i monopoli sui vaccini per il Covid 19 (e in funzione dell’interesse pubblico, potrebbero e dovrebbero farlo) e invece di obbligare i colossi a cedere i brevetti, avrebbero piuttosto dovuto concedere delle licenze di fabbricazione ad aziende diffuse per il mondo, in grado di vendere dosi a costi più abbordabili.
SANIGATE
La favola dei diecimila posti letto in più in terapia intensiva, rispetto all’inizio della pandemia, è smentita dai numeri reali e dalla cronaca: nonostante la Regioni abbiano avuto a disposizione 1,4 miliardi di euro per potenziare gli ospedali e 200 milioni per assumere medici e infermieri, ad oggi le terapie intensive attive sono 6500, appena 1500 in più rispetto al 2019. Inoltre, la carenza di personale blocca interventi chirurgici e liste d’attesa, chiude i Pronto Soccorso (come quello pediatrico di Chieri) e le sale chirurgiche (come ad Assisi, Umbertide e Castiglion del Lago, in Umbria), per non parlare della generale riduzione dei posti letto per far spazio ai reparti Covid che scarica i pazienti nei Pronto Soccorso, ai quali manca ad oggi un quarto della forza lavoro necessaria.
C’è penuria anche di medici di base, i cui stipendi dal 2004 si sono ridotti dell’1,5%, spingendo molti di loro, anche per lo stress e la mole di lavoro, al prepensionamento e la soluzione di Zaia, in Veneto, di alzarne il carico di pazienti pro capite da 1500 a 1800, sembra più una punizione che un incentivo.
Se la situazione è drammatica per medici e anestetisti, il buco da 350 000 infermieri sembrerebbe la vera causa del lento collasso sanitario visto che l’Italia, coi suoi 5,6 infermieri ogni mille abitanti è ben al di sotto degli standard fissati dall’Ocse (8,8 ogni mille) e di quelli di Francia (10,8) e Germania (13,2).
La sperequazione ha favorito la Sanità pubblica e i grandi nosocomi di città, penalizzando le aziende periferiche e le residenze per anziani, creando di fatto una disuguaglianza inammissibile in termini di salute, senza dimenticare che i bassi salari e la difficoltosa burocrazia disincentivano i professionisti stranieri a venire a lavorare in Italia.
Infine, chi pensa di poter sfruttare i 20 miliardi del Pnrr si sbaglia perché quei soldi servono per realizzare 1288 case della comunità, 602 centrali di assistenza domiciliare e 381 ospedali per la lunga degenza, ma non per assumere medici e infermieri e, inoltre, il 64% di queste risorse sono di fatto prestiti, e come tali creano debito.
POSSIBILI SCENARI
- Per lavorare in un ospedale pubblico italiano è necessario partecipare a un concorso, cui si accede tramite la cittadinanza, e per iscriversi all’Ordine dei medici e degli infermieri, bisogna avere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Per snellire la macchina burocratica e aprire agli stranieri basterebbe concedere il soggiorno agli studenti e a chi ha un titolo di studio conseguito all’estero;
- Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, lo Stato mette i soldi e le Regioni hanno autonomia nelle spese ma la loro lentezza, i ritardi burocratici e l’incapacità proprio nel gestire le gare d’appalto, rendono il sistema fallimentare costringendo il Governo a misure draconiane (Dragoniane). Urge una riforma sistemica invocata da tempo dagli esperti di settore;
- Si dovrebbero brevettare solo prodotti che offrono reali vantaggi terapeutici, dimostrati con studi comparativi indipendenti (eliminando così molti farmaci-fotocopia), limitando la durata del brevetto fino al recupero delle spese per ottenere il farmaco, legandone l’acquisizione dai laboratori pubblici all’impegno nel calmierare il prezzo finale del bene.
L’incapacità di creare un vaccino nazionale (nonostante un eccellente tradizione) data dalla migrazione all’estero dei settori più avanzati dell’industria farmaceutica italiana, per i problemi burocratici e per gli scarsi fondi destinati alla ricerca, è la sineddoche di una Sanità che al di là della retorica e dei numeri falsati (come quello dei posti attivabili, da comunicare all’Agenas, nei quali confluiscono anche gli altri reparti d’intensiva riconvertiti a Covid), deve ripartire da una politica più attenta al territorio e da investimenti che creino un giusto raccordo fra formazione e domanda.
L’emergenza pandemica ci ha insegnato che la salute non è più solo un diritto ma un dovere.