Iniziati come dieci progetti paralleli, poi confluiti in unico documentario per il sopravvenire della pandemia, i lavori degli studenti siciliani della Scuola Nazionale di Cinema (diretta dalla regista Costanza Quadriglia), sono ora disponibili su Rai Play col titolo: «Sotto lo stesso tempo», un’opera corale e multietnica, a tratti ironica, a volte involontariamente lirica, che amplifica il tempo sospeso dei ragazzi durante i mesi «caldi» del primo lockdown.
Le testimonianze si susseguono ai flash back, tramonti infuocati si alternano a bianco-neri di indiscutibile potenza visionaria e le voci fuori-campo acquisiscono valore storico perché circostanziali agli interminabili giorni della pandemia, in cui tutti hanno filmato (o si sono filmati) per rappresentare un’esistenza remota e intangibile.
I QUARANTEENS
I «quaranteens», o ragazzi della quarantena, sono fotografi, aspiranti pittori, pianisti, ma anche semplicemente fidanzati (a volte distanziati più che distanti), figli o nipoti, incollati allo schermo di un Pc, a tratti desolati o depressi, ma più spesso desiderosi di vivere nonostante tutto, e incapaci di rassegnarsi a uno stato di cose che li ha improvvisamente responsabilizzati e resi consci di un passato da riscoprire: riemergono frammenti di famiglie estese, album seppiati e ricordi sgualciti da srotolare come cartine geografiche di un’identità ridotta ai suoi frattali.
Il tempo di questi dieci giovani cineasti, lo «stesso tempo» in quanto immobilità condivisa, è divenuto «interessante» e per la prima volta nella loro breve e iper-stimolata esistenza, la Storia (quella con la maiuscola) li ha toccati includendoli in un dialogo che finora era avvenuto soltanto tramite Google o i libri di testo.
La voce distorta di Conte, in costante aggiornamento di regole in base allo sviluppo dei contagi, si fonde a quelle degli scettici mentre le luttuose immagini dei camion militari a Bergamo ricordano a tutti il panico e l’infodemia, i complottismi e l’isolamento, ma anche l’inno di Mameli dai balconi, gli appelli all’unità e la facile retorica nazional-popolare rapidamente sfumata nel dualismo No vax/Si vax.
Una delle figure più intime e cinematograficamente efficaci, è la nonna di una delle protagoniste che alla domanda se abbia mai vissuto un momento simile in vita sua risponde: «Ho vissuto il periodo triste della guerra ma non la quarantena. La quarantena porta a una paura più consistente, più vicina e subdola. La guerra a volte era lontana».
Ecco l’identificazione (novecentesca) di un pericolo, nello spazio e nel tempo, laddove il nuovo millennio, varandole nel digitale, ne ha disperso le coordinate trasformando la paura, di cose visibili, nell’indeterminatezza del panico; «ora come ora il futuro non è una cosa che riesco a immaginarmi» sussurra il voice over nelle battute iniziali, non perché lontano per definizione ma forse perché talmente vicino da riempire lo sguardo saturando l’obiettivo.
DISTANZIAMENTO SOCIALE
«Distanziamento sociale» è l’acquerello dipinto da una delle film maker: una casa di campagna circondata da una selva di colori fauve e in effetti, a partire dall’indolenza felina di alcuni fotogrammi è la Natura, e in particolare il mare, a fare da sfondo immutabile all’impotenza umana, ridimensionandone l’antropocentrismo e la smania coloniale e riducendolo al ruolo d’ingombrante comparsa.
Gli esterni sono quelli di una Palermo spettrale, coi terrazzini disadorni dalle facciate dei palazzi quasi metafisici, nel silenzio di una metropoli solitamente caotica e piena di vita, ma la città mutata in quinta di cartapesta è solo un pretesto poiché l’azione (in senso anche e soprattutto filmico) sta nel filmato del filmato, nella camera che riprende il cellulare che riprende lo schermo di un computer, in questo trionfo del meta-racconto che, trasformando la vita in rappresentazione, ne distrugge tutti i presupposti al punto che non siamo più nel post-modernismo ma solo nel post(are).
Ci si cerca su Google Maps, e chissà se qualcuno avrà creato un «gruppo dei positivi» su Facebook: nell’assenza dello Stato, costante non solo puberale del Meridione, restano gli «stati» ma ciò che colpisce in questo documentario è la ricerca di radici altrimenti recise o scontate, il tentativo di recuperare il tempo più che perduto sospeso, pesante come un compatto blocco di marmo che non si lascia né toccare né scolpire.
«Ho cercato di utilizzare la telecamera per riappropriarmi di questi luoghi d’infanzia», proclama una voce fuoricampo e ancora «dovremo riconquistare ogni centimetro di strada con fatica»: di nuovo la macchina da presa come filtro del reale e dominio della scena della vita, eccesso di sguardo che nella sua voracità pensa sé stesso, s’inventa un’estetica («come guardavamo i film prima? Come li guarderemo quando quest’epoca avrà fatto il suo corso?»)
Ma è la mancanza del copro dell’altro a segnare le riflessioni composite dei quaranteens, invitati a dubitare del contatto fisico in un momento della propria esistenza in cui dovrebbero fondare il proprio erotismo, come esperienza del mondo e nel mondo: l’obiettivo d’amore è (ri)mosso.
In un mondo trasformato in disaster movie, la catarsi è bloccata dal continuo aggiornamento delle vittime e il suo mutare in aggiornamento dei vaccini non allenta il primato della cronaca sulla vita: «mi chiedo se la quarantena ci abbia realmente avvicinati», sussurra un lucidissimo voice over, «o se questo scriversi/cercarsi non sia solo una reazione alla perdita di controllo sulla propria vita e su quella degli altri.»
La base dell’autolesionismo è farsi del male per dimostrare (a sé stessi o agli altri) di esistere; nell’era patologica che stiamo vivendo forse farsi del male è autorappresentare il proprio dolore: la banalità del male non è più la pianificazione di un massacro ma il piano sequenza di un auto-martirio.