Spesso confuso (erroneamente) coi bitcoin, il termine NFT è la parola più diffusa al momento per chi si occupa di nuove frontiere digitali. Ma vediamo, nel dettaglio, di cosa stiamo parlando.
L’NFT (non fungible token) è uno speciale token che rappresenta l’atto di proprietà e un certificato di autenticità scritto su Blockchain (struttura dati condivisa e immutabile, suddivisa in blocchi crittografici in ordine cronologico) di un unico bene, digitale o fisico; a differenza delle criptovalute (che sono fungibili), gli NFT non sono né fungibili né interscambiabili.
Il valore (l’unicità) dell’NFT non poggia sulla tecnologia blockchain, né sul processo di hashing, che potrebbero essere entrambi superati nel tempo ma, dal punto di vista giuridico, sul rapporto di fiducia fra acquirente e venditore, poiché il secondo spera che il primo non abbia già venduto la stessa opera più volte, riducendo l’NFT a un valore irrisorio (visto che non possono esistere NFT uguali, ma ne possono esistere di molto simili, tutti rivolti a trasferire la proprietà della stessa opera).
Acquisire qualcosa con un NFT non equivale ad acquistarlo nel senso tradizionale del termine, ma a poter dimostrare un diritto sull’opera: tramite uno smart contract, si compra il formato digitale di un’opera in codice informatico (binario), quindi attraverso un processo di hashing si comprime questa sequenza di numeri (hash), che viene poi memorizzata su una blockchain (con una precisa marca temporale).
Come dire: «in questo momento sono in possesso di una foto o di una ripresa filmata di un’opera»; un NFT contiene inoltre pochissimi dati (per una questione di spazio ed energia impiegata).
META-GASTRONOMIA
Cresce il comparto delle criptovalute nel mondo del food and beverage, soprattutto per ciò che concerne gli NFT, per permettere a un’azienda di rivalutare il proprio marchio, rilanciarsi sul mercato o rinnovare la propria identità (ad esempio la Budweiser ha già creato una linea digitale delle sue lattine più famose, andata a ruba, o la Campbell’s Soup, che si è rifatta il look).
Non stiamo parlando solo di aziende o packaging però perché a New York nel 2023 aprirà il Flyfish, ristorante di pesce del gruppo VCR, un club privato il cui accesso sarà garantito solo agli ospiti che avranno acquisito NFT; a gestire il progetto è David Rodolitz, CEO di VCR, che ha dichiarato: «il concetto di un ristorante cui l’autorizzazione all’accesso è verificata tramite blockchain, rappresenta una grande evoluzione».
Si parte da biglietti digitali standard di 2,5 eth (8000 dollari), fino a biglietti exclusive di 4,25 eth (14 000 dollari), anche se i prezzi sono saliti fino a 30 000 dollari e la società dichiara di aver già venduto token per un valore complessivo di 15 milioni (per un ristorante che non ha ancora aperto e di cui non si conosce nemmeno il menu).
I diversi token introducono in sale differenti, e ad una in cui è lo chef in persona a cucinare per gli ospiti, inoltre il possesso del token non garantisce solo l’accesso al ristorante ma dà la possibilità ai proprietari di rivenderlo o affittarlo, traendone un profitto: naturalmente il conto finale si paga in dollari. Si può pensare ad ingressi esclusivi in ristoranti di livello, premi e riconoscimenti per gli chef, ma anche a un modo per risolvere il problema della contraffazione dei vini.
ARTE 3.0
Non molto tempo fa Jack Dorsey, CEO di Twitter, ha venduto per 2,9 milioni di dollari il suo primo tweet e lo scorso marzo 2021 Mike Winkelmann ha ricavato da un’asta on line da Christie’s 69 milioni di dollari per la sua opera «Everydays: the first 5000 days»: in questo preciso momento storico l’utilizzo degli NFT è particolarmente sviluppato nell’arte (soprattutto digitale) in quanto sfugge al banale concetto di copia/incolla di un’immagine, a prescindere dalla qualità della definizione.
Ciò che conta è possedere un frammento, unico e immutabile, di blockchain per entrare nella storia di Ethereum ed esporre nel mondo virtuale del metaverso (l’esempio più illustre è Decentraland, un luogo digitale dove si possono acquistare lotti di terreno virtuale e costruire gallerie da far visitare ai fruitori).
La cosa, da sofisticheria gourmet, diviene interessante se si passa al cinema: Mila Kunis e Ashton Kutcher (con l’ausilio al doppiaggio di Jane Fonda, Chris Rock e Seth McFarlane) hanno distribuito tramite la Orchad Farm Production, proprio della Kunis, il cartone animato «Stoner Cats», visibile esclusivamente a chi acquista degli NFT.
Delusi dalle proposte hollywoodiane, il duo ha venduto 10 420 token in soli 35 minuti, incassando 8,3 milioni di dollari (ogni NFT aveva un costo di 800) e gli acquirenti hanno potuto disporre di un’immagine casuale valevole come chiave d’accesso agli episodi.
Stesso esperimento per «La leggenda di Kaspar Hauser» di Davide Manuli, con Claudia Gerini e Vincent Gallo che, col sostegno della start up Cinteche, hanno trasformato in NFT alcune scene del film e le hanno messe in vendita sul market place OpenSea; si tratta di 62 frame della pellicola della durata media di 15-20 secondi. E di 20 scene cult più due principali.
La rivoluzione sta nel fatto che il proprietario di un NFT cinematografico potrebbe davvero possedere un film, un corto o un frammento d’autore laddove, anche nel caso di VHS, dvd o vinili (magari firmati o numerati da collezione) si pagava pur sempre e solo per il diritto di vedere un contenuto.
Ovviamente la moda non poteva restare a guardare e, da Gucci a Balenciaga, passando per Burberry, le principali griffe si sono interessate agli NFT, ma è stata Dolce e Gabbana che quest’anno a Venezia ha presentato una collezione da uomo e donna (e una linea di accessori) agganciata ai non fungible tokens che, messa all’asta, è stata acquistata per 5,7 milioni di dollari.
La casa di moda olandese Fabricant è una «digital fashion house», e cioè produce e rivende su Dematerialised vestiti e accessori per avatar da indossare su piattaforme virtuali; la compravendita avviene tramite NFT e gli abiti si chiamano skin. I vantaggi sono molteplici: non ci sono costi, né di produzione né di trasporto né di materie prime, le royalties vanno direttamente al designer ogni volta che l’oggetto viene rivenduto e infine, grazie alla tecnologia blockchain, è impossibile la falsificazione.
Le obiezioni agli NFT, perlopiù analogiche, poggiano sull’immaterialità dei tokens e su una visione materialista dell’arte (un conto è possedere un olio d’autore, un conto un frame o un jpeg che, per quanto unico, può essere copiato e incollato da chiunque), ma anche sulla non esclusività dell’oggetto indicato, senza considerare che in molti stanno usando questo sistema per riciclare denaro sporco, visto che si tratta di un settore ancora non del tutto regolamentato dal punto di vista legale: al tempo stesso molti artisti digitali stanno guadagnando coi loro lavori, cosa che prima era quasi impossibile.
Ma in uno scenario tutt’altro che lontano, in cui il metaverso implementerà prima e poi sostituirà la realtà, e in cui le masse trascorreranno più tempo sul virtuale, gli NFT potrebbero contare più del denaro perché a contare saranno più gli avatar degli esseri umani, e quindi una visione materialista dell’arte, storicizzata e romantica, potrebbe divenire decisamente minoritaria.
Come scriveva McLuhan: «il medium è il messaggio». E se il medium (digitale e oracolare) scomparisse?