Pietra angolare della rivoluzione cognitiva e simbolo dello strutturalismo razionalista, da più di mezzo secolo il QI (quoziente intellettivo) è divenuto, oltre a una discriminante sociale e didattica, anche un fedele alleato del Capitalismo (e del Post-Capitalismo) in tutte le sue declinazioni: com’è noto si tratta di un punteggio ottenuto da valutazioni standardizzate progettate per testare l’intelligenza nella sua capacità di apprendere, comprendere e applicare le informazioni a diversi set di abilità.
Chi ha un elevato QI normalmente pensa in maniera più veloce, ha una maggiore capacità di astrazione (quindi di semplificazione e generalizzazione), che da sempre è un rilevatore ontologico e filosofico non indifferente, ed è in grado di creare rapide connessioni fra diversi elementi logici.
Intuitivamente, e secondo studi accreditati, un più alto QI consente:
.) un maggiore rendimento scolastico;
.) maggiore autoconservazione in termini di salute;
.) una naturale propensione alla ricchezza materiale.
Ma come si calcola il QI?
Si divide l’età mentale di un individuo per la sua età cronologica e poi si moltiplica per cento: ad esempio un ragazzo con un’età mentale di 15 anni ed una cronologica di 10 avrebbe un QI di 150 e, tenendo conto che un QI medio totalizza 100, siamo in presenza di un’intelligenza potenziale cognitiva ben al di sopra della normalità.
Naturalmente ogni QI è frutto di una generalizzazione e non mette al riparo da fobie e psicosi della postmodernità, ma rappresenta di sicuro uno degli indici più rappresentativi di quel principio di prestazione su cui si è costruita l’attuale società (dello spettacolo e non).
IL QUOZIENTE EMOTIVO
Se volessimo dare una definizione sommaria e indicativa del QE (o quoziente emotivo) potremmo descriverlo come «la capacità di conoscere e comprendere le proprie e altrui emozioni, saperle utilizzare e gestire scientemente nel vissuto quotidiano».
Da ormai qualche anno il QE ha acquisito una notevole rilevanza nel mondo degli affari e dell’Alta Finanza, non solo perché centrale per la modalità di assunzione ma anche perché molti manager ne utilizzano i test per «allenare» i propri dipendenti, cercando di accrescerne l’empatia e la capacità di problem solving.
Numerose e accreditate ricerche hanno infatti dimostrato che un elevato QE aumenta il potenziale professionale di ogni ordine e grado divenendo addirittura primario per ciò che concerne la leadership: la proporzione che ne scaturisce è che a una forte leadership corrisponde un elevato QE, e viceversa.
Ma, nel concreto, il QE può aiutare (sul piano professionale e nel senso più esteso, gestionale):
- A negoziare e gestire i conflitti;
- Ad aiutare i leader a capire le motivazioni di ognuno e a motivarli;
- A creare un clima più partecipativo in cui tutti possano esprimere le proprie opinioni in un’ottica cooperativa;
- A facilitare i quadri di comando nello sfruttare opportunità precluse ai più;
- A risolvere i conflitti in modo equo e imparziale;
- A sviluppare un alto morale che consenta a ogni elemento di sfruttare al meglio il proprio potenziale;
- A bypassare ansie e reazioni istintive, elaborando percorsi individualizzati (e innovativi) in base alle singole esigenze.
Storicamente il termine fu introdotto da Salovery e Mayer in un articolo datato 1990 dal titolo «Emotional Intelligence», poi ripreso da Goleman che, nel trasformarlo in una vera e propria bibliografia, ha estratto le 5 componenti fondamentali dell’intelligenza emotiva:
- Consapevolezza;
- Autocontrollo;
- Motivazione;
- Empatia;
- Abilità sociali.
Non è difficile, a contrario, elaborare in chiaroscuro cosa possa produrre un analfabetismo (di ritorno e non) emotivo:
- Aggressività;
- Difficoltà relazionali;
- Depressione;
- Disturbi del comportamento;
- Dipendenze.
Salita alla ribalta del dibattito sociale e divenuta, soprattutto nel mondo anglosassone, una componente basilare dei cv scolastici, l’intelligenza emotiva è penetrata nel mondo ludico (con giocattoli che promettono di accrescerne la portata nei bambini) e in quello formativo, attraverso i SEL (Social and Emotional Learning), che introducono una fondamentale domanda: l’intelligenza emotiva può essere insegnata o consolidata?
La risposta, forse pleonastica, è sì.
Da una ricerca è emerso che il 50% dei ragazzi iscritti ai SEL ha migliorato il proprio rendimento e il 40% ha registrato un incremento medio, con tre caratteristiche comuni a tutti:
- Aumento della frequenza scolastica;
- Drastico calo dell’abbandono;
- Diminuzione delle sanzioni disciplinari.
Possiamo portare tre esempi concreti:
- Agenti assicurativi con un basso QE vendevano polizze con un premio medio di 54mila dollari; quelli con un elevato QE arrivavano a un premio medio di 114mila dollari (Cooper 2013);
- Secondo una ricerca del Carnegie Institute of Technology, l’85% del successo finanziario è dovuto alla personalità e solo il 15% alle conoscenze tecniche; inoltre, secondo il premio Nobel Kahneman (psicologo israelo-americano) si preferisce fare affari con chi ci sta simpatico, anche se il prodotto che ci offre costa di più ed è di qualità inferiore (Jensen 2012);
- In termini di successo personale il QI oscilla fra il 10 e il 25% (come percentuale d’impatto) mentre la restante fetta della torta è decisa da una serie di variabili fra le quali il QE è primario (e non si può più accampare l’alibi della genetica o del fattore culturale, visto che è stato ampiamente dimostrato quanto l’intelligenza emotiva, e il conseguente linguaggio, siano migliorabili). (Bressert 2007.)
DIDATTICA E NEUROSCIENZE
Sul piano didattico, spesso i docenti per scarsità di risorse (economiche e/o temporali) si trovano di fronte al bivio se privilegiare l’intelligenza cognitiva o quella emotiva, ma in realtà le due componenti sono complementari e il loro combinato disposto può condurre a:
- Un apprendimento autentico tramite processi cognitivi e metacognitivi;
- Al dialogo, alla fiducia, alla comprensione, tramite lo stimolo delle emozioni;
- Al miglioramento del rapporto docente/discente;
- Alla spinta al cambiamento personale;
- Al miglioramento del microcosmo classe.
Nell’ultimo secolo il QI medio è aumentato a dismisura, grazie a un crescente tasso di alfabetizzazione e scolarizzazione, ed è stato facile determinarlo visto che si fonda su variabili misurabili, ma l’aumento di solitudine e frustrazione che accompagna la nuova era digitale sta dando sempre maggiore rilievo al QE, anche perché, mentre è dimostrato che un suo aumento porti anche a una crescita del QI, non è sempre vero il contrario.
Prendendo in prestito l’affermazione di Merleau-Ponty: «ogni tecnica è una «tecnica del corpo». Essa raffigura e amplifica la struttura metafisica della nostra carne», se è vero che l’intelligenza è la capacità di adattarsi (modificandolo) all’ambiente naturale, il QE ha la stessa funzione per quell’unicum umano che è l’ambiente culturale.
Negli ultimi anni, ad esempio, il dibattito sulle neuroscienze si è concentrato su:
- Le correlazioni fra corteccia prefrontale e sistema limbico;
- Le connessioni fra l’amigdala e la neocorteccia, dal punto di vista della cooperazione fra pensiero e sentimento;
- Lo studio del sistema limbico, nella sua complessità, soprattutto per la sua capacità di regolare i comportamenti istintivi, le funzioni e i ritmi vitali, di distinguere i ricordi positivi da quelli negativi e di presiedere la memoria, l’attenzione, l’apprendimento e le emozioni.
Le intelligenze sono molte (almeno 9, secondo Gardner) più quella motoria distribuita nel sistema nervoso periferico, ragion per cui, dal punto di vista neurale, la classica bipartizione fra ragione ed emozioni, non ha più senso di esistere. Bisogna addivenire a una concezione olistica del corpo.
Germano Innocenti