Mattatoio numero 5: il non-sense della guerra secondo Kurt Vonnegut

da | Gen 7, 2022 | MONDOVISIONE

Il 31 marzo del 1969 esce «Slaughterhouse Five», Mattatoio numero 5, il capolavoro e ad oggi uno dei libri più conosciuti del controverso scrittore americano, ironicamente di origini tedesche, Kurt Vonnegut. Frutto d’una lunga gestazione (quasi venticinque anni) e in larga parte autobiografica, l’opera divenne quasi subito un best seller e il film a lei ispirato (1972) vinse il Gran Premio della Giuria a Cannes ma, a fianco ai numerosi riconoscimenti, fra i quali spicca un’iniziale ed entusiastica recensione del New York Times, il libro collezionò anche molte censure essendo di fatto un testo pacifista e per niente celebrativo dell’operato americano durante la Seconda Guerra Mondiale.

A tre chilometri dal centro storico di Dresda, in Germania, teatro degli eventi narrati nel libro, si trova il grande complesso fieristico di Messe Dresden (36 500 metri quadrati di area per convegni e esposizioni, inaugurata nel 1999) che ha preso il posto dell’antico mattatoio di Erlwein’scher; dietro una porta verde targata «Schlachthof 5- Slaughterhouse Five», si scende al sotterraneo illuminato al neon dove campeggia un frammento del libro di Vonnegut: «è solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segua un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso, è trascorso per sempre.”

MATTATOIO NUMERO 5

«Mattatoio numero 5», «la crociata dei bambini» o «danza obbligata con la morte» è la storia di Billy Pilgrim, aiuto-cappellano di 18 anni, «alto e gracile, e fatto a forma di bottiglia di Coca Cola», che si ritrova catapultato nella Seconda guerra Mondiale, senza armi né ordini da eseguire, e dopo essere stato catturato e trasportato a Dresda, sopravvive a uno dei più feroci bombardamenti della Storia che in 24 ore rase al suolo la città uccidendo un imprecisato numero di civili.

La guerra, descritta con asciutto cinismo al punto da diventare involontariamente comica, non viene indagata né dal punto di vista politico né da quello strettamente militare, ma dall’ottica ingenua e disturbata di un Giovane Holden in grado di viaggiare nel tempo: Billy è al tempo stesso un aiuto cappellano, capro espiatorio (fra gli altri) del commilitone Lazzaro che lo accusa di non prendere sul serio il conflitto laddove lui si limita a non capirlo, un optometrista di successo e una cavia per lo zoo di alieni del pianeta Tralfamadore (topos ricorrente di molti romanzi e futuri racconti), e un conferenziere pronto a svelare i segreti della vita e della morte a lui rivelati proprio dai tralfamadoriani.

Lo stile del romanzo, la cui narrazione discontinua per molti fondò o anticipò il postmodernismo, e che per altri ben rappresenta il Caos mentale delle sindromi post-traumatiche dei reduci, consente all’autore non solo di sbriciolare una visione lineare di tempo e di rovesciare il nesso di causalità in quello di casualità, ma anche di descrivere la vita, soprattutto nelle sue parti più tragiche e incomprensibili, non come il frutto di un disegno divino (Vonnegut non nascose mai il suo manifesto ateismo) né come la ponderata sintesi di un evoluzionismo storico, ma come il fatalismo degli insetti fissati nell’ambra.

Il taglio fantascientifico di «Mattatoio numero 5», e il fatto che K.V. fu a lungo considerato un semplice scrittore di genere, consentono a questo particolare libro di operare quella distanza dalla propria autobiografia, senza la quale gli episodi più intensi rischiano di risultare fasulli o così impregnati di pathos da ridurci all’afasia. E non è un caso che ci siano voluti venticinque anni di riscrittura per arrivare alla stesura finale (che Vonnegut continuò a definire nel tempo, «un fallimento scritto da un pilastro di sale»).

Il massacro di Dresda è uno degli episodi più oscuri e sanguinari della Seconda Guerra Mondiale (le fonti ufficiali parlano di circa 40 000 vittime civili, Kurt ne enumera 250 000), ma è ovvio che la data di uscita del libro (1969), in piena guerra del Vietnam, spiega le accuse di antiamericanismo piovute addosso all’autore e le conseguenti lodi del popolo hippy che lo adottò come profeta, ma le descrizioni di morte di «Mattatoio numero 5» (in cui il vero mattatoio era al di fuori delle solide mura di viva roccia in cui cento e più prigionieri americani riuscirono a rifugiarsi) sono un inno all’insensatezza di ogni conflitto, commentata nel testo dall’espressione «così va la vita» (presente ben 106 volte) e dal ricorrente zufolio di un uccello.

Tutto è follia nella Dresda vonnegutiana: l’organizzazione militare tedesca che giungerà a giustiziare il capitano Derby, reo di aver trafugato fra le macerie una teiera, la disorganizzazione quasi picaresca delle truppe americane che vede il suo culmine nell’abbigliamento del povero Billy, cui toccarono in sorte gli stivali di Cenerentola di una recita alleata, e l’ortodossia inglese in grado di mantenere il decoro militare fino ai limiti del grottesco.

La carneficina di Dresda non sposterà le sorti del conflitto di un centimetro, così come non ci riuscirà l’atomica e Billy Pilgrim, che non verserà una sola lacrima per tutto il tempo del suo arruolamento, eromperà in un pianto disperato quando due coniugi tedeschi gli faranno notare che i cavalli da tiro con cui sta cercando di abbandonare la città sono stremati e feriti.

«I soldati veri sono tutti morti, vero?», chiederà una donna vedendo il soldato-bambino Billy col suo ridicolo cappotto e gli stivali da Cenerentola.

«Solo per i morti la guerra è finita davvero», le avrebbe risposto Pavese.

KURT VONNEGUT

Cronista, laureando in antropologia, rappresentante, pompiere dilettante, alcolista, storico depresso, ateo e aspirante suicida, Kurt Vonnegut, col suo stile a metà fra Mark Twain e Salinger, ha dato alla fantascienza distopica quel tocco d’ironia surreale che manca all’universo catastrofista di scrittori del calibro di Ballard e Dick: «mi hanno fatto entrare a forza in un cassetto etichettato «fantascienza» e adesso vorrei tanto uscirne, soprattutto perché molti dei critici più rispettabili scambiano spesso questo cassetto per un orinale».

Le interviste (spesso provocatorie se non paradossali) rilasciate dallo scrittore americano spaziano dai tre dollari a vittima che avrebbe guadagnato con Mattatoio, visto che lui fu l’unico beneficiario di un bombardamento inutile costato milioni di dollari al governo statunitense, al suo ritenersi d’accordo con dittatori come Stalin o Mussolini sul fatto che uno scrittore debba servire la sua società ma non nel modo in cui intendevano loro, eppure resta innegabile il valore testimoniale della sua opera: fante esploratore (volontario), e non aiuto cappellano come il protagonista di Mattatoio numero 5, Vonnegut fu fatto prigioniero il 19 dicembre del 1944, dopo l’ultima disperata difesa di Hitler attraverso Lussemburgo e Belgio, insieme ad altri soldati americani, e fu spedito in un campo di lavoro a Dresda il 10 gennaio, e lì costretto a lavori estenuanti, senza cure mediche né vestiti e con razioni di cibo che consistevano in 250 grammi di pane nero e una pinta di zuppa di patate non condita al giorno, finché, il 14 febbraio il combinato attacco degli americani e della RAF non cancellò letteralmente la città.

Cinico e depresso, ma con una fantasia metastatica, K.V. amava gli scrittori di fantascienza (Kilgore Trout, suo alter ego in molti romanzi, è proprio uno squattrinato e inutilmente prolifico scrittore di fantascienza); li amava perché erano gli unici in grado di occuparsi seriamente del futuro e di ciò che ci potrebbe riservare.

Il suo: «quando siete felici fateci caso» dovrebbe essere marchiato a lettere cubitali su tutti i caccia bombardieri della terra.

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