Strade notturne invase di adolescenti coi bicchieri in mano, Pronto Soccorso sempre più frequentati da giovani o giovanissimi in coma etilico, locali con gestori senza scrupoli pronti a vendere alcol a minorenni facendo cartello coi colleghi della zona per stabilire prezzi più che popolari che rientrino nelle tasche di chi li frequenta, e poi ancora ragazzi che rischiano l’assideramento girando in pieno Inverno a maniche corte, anestetizzati da birre o superalcolici, il tutto in piazze (a volte anche dei centri storici) cosparse di vomito o urina, dove alle prime luci dell’alba si improvvisano risse, talvolta anche all’arma bianca, che richiedono l’intervento delle stupefatte (dalla giovane età dei protagonisti, più che altro) forze dell’ordine.
Questo il ritratto, tutt’altro che caricaturale, di un’Italia che fatica a uscire dalla pandemia e che la quarantena ha reso fredda e insensibile ai propri figli, a loro volta pronti ad abbracciare l’alibi della reclusione non per cercare (tramite alcol o droghe) un’esperienza limbica o un principio di coesione sociale smarrito, ma solo la perdita di controllo e l’oblio di sé che, se posti alla fine di un percorso esistenziale sono salutari disintossicazioni da una sospetta pienezza ontologica ma in una così tenera età rischiano di ribadire il facile nichilismo di chi non ha alcuna voglia di conoscersi, in quel periferico ma fertilissimo terreno che consente l’unica possibilità di crescita possibile.
Se guardi nell’abisso, l’abisso ricambia lo sguardo, ma solo se hai gli occhi ben aperti (e le pupille non dilatate).
GENERAZIONE ON THE ROCKS
L’ultimo report dell’Iss, la Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze dello scorso 30 giugno, ma anche i rapporti delle forze dell’ordine sulla guida in stato di ebbrezza, fino alla testimonianza dei medici del Pronto Soccorso o dei responsabili delle Aa (Alcolisti Anonimi) parlano chiaro: la generazione Z, quella dei nativi digitali o post-millenial, che ricomprende approssimativamente i nati fra il 1995 e il 2010, è quella dei consumatori compulsivi di alcol, i più precoci in Europa (in Italia si inizia a bere a 12 anni), e il Covid ha solo peggiorato le cose con il 17% delle 48 000 intossicazioni etiliche a riguardare i minori di 14 anni.
Sono già 6000 nello stivale gli adolescenti presi in carico come alcolisti, e si sale a 600/700 mila se parliamo di under 18, risultato di un incremento del 110% del wine delivery ma anche del trionfo anglofilo di pratiche come il «binge drinking» (bere almeno sei bicchieri a sera per sballarsi) o il «Nek Nomination» (niente a che vedere con l’icona pop, si tratta di nominare tre amici che devono filmarsi mentre si scolano una bottiglia in una sera), ma anche d’una scarsa attenzione parentale e di un generico lassisimo, figlio dei tempi e di un’idea di libertà pericolosamente confinante con l’irresponsabilità.
Bere ormai costa ovunque pochissimo, molti negozianti (soprattutto quelli dei market etnici) non si fanno scrupoli a vendere alcol ai ragazzini, che spesso «rinforzano» gli shottini da un euro o i cocktails da 2,5 euro con vodka o gin, per arrivare il prima possibile allo sballo e, come segnalato da educatori o esponenti dell’Arma, aumentano le recidive di guida in stato di ebbrezza o le derive violente che finiscono direttamente al Tribunale dei Minori.
Latitano campagne d’informazione e sensibilizzazione, con un milione di euro spesi per la prevenzione contro i 500 investiti per pubblicizzare gli alcolici, forse anche a causa di uno Stato in bilico fra la nobile tutela della tradizione enogastronomica e la strisciante complicità (anche economica) con l’ubriachezza generalizzata (argomento che potrebbe estendersi alla ludopatia), eppure è risaputo che i giovani non riescono a metabolizzare l’alcol come gli adulti: gli alcolici nel sangue arrivano alle membrane neuronali eliminando i fosfolipidi e danneggiando l’ippocampo (quindi la memoria e l’orientamento viso-spaziale), con risultati permanenti che, specialmente nelle ragazze che normalmente hanno una struttura fisica più esile, possono portare una perdita fino al 20% della capacità cognitiva.
Idem per il coma etilico che se dura troppo a lungo, oltre a creare danni permanenti sul piano cognitivo, può generare problemi cerebrali a causa dell’ipo-ossigenazione.
SD(R)OGANAMENTO
In un’ottica di poli-abuso, l’alcol resta però solo una «gateway drug» da abbinare a microdosi di hashish, marijuana, mdma o palline di cocaina, anche grazie al dark web o alla consegna a domicilio, attività favorite dalla Rete e in cui i millenial sono ovviamente più che preparati.
Secondo una recente ricerca di «Espad Italia», il 9,3% degli studenti italiani fra i 15 e i 19 anni è un «poli-utilizzatore» (cioè consuma 2 o 3 sostanze contemporaneamente, i maschi più delle femmine) con la cannabis al primo posto, poi le nuove sostanze psicoattive (Nps), i cannabinoidi sintetici, gli stimolanti (fra cui la cosiddetta droga dello stupro), gli allucinogeni e nelle ultime posizioni la cocaina, gli oppiacei e l’eroina.
Negli ultimi anni si sono molto diffuse le amfetamine e la ketamina, ma anche gli sciroppi della tosse che, dosati in modo diverso dalla prescrizione medica o mixati con altri farmaci (e in questo Internet è una guida molto pertinente, nel senso malvagio del termine, per i ragazzi) possono trasformarsi in sostanze psicoattive, ma sono ben 90 le nuove Nps (nuove sostanze psicoattive) comparse in Italia nel 2020, un aumento del 200% rispetto al 2019, e che si contraddistinguono per i bassi costi, sia di produzione che di vendita.
Senza considerare che sottovalutare il peso delle droghe leggere (ossimoro volontario) può essere pericoloso perché la marijuana e l’hashish moderni hanno una concentrazione di Thc (tetraidrocannabinolo) 25 volte superiore al passato, e quindi possono impattare in maniera significativa sulla maturazione cerebrale degli adolescenti, e questo spiega perché in molti consumatori di droghe leggere stiano subentrando negli ultimi anni danni collaterali precedentemente mai riscontrati.
Sotto questo punto di vista, né la legalizzazione né la repressione possono spezzare il poli-abuso di alcol e stupefacenti presente nei giovani e che la pandemia, con l’isolamento generazionale che ha determinato, la disattenzione dei genitori e delle istituzioni, ma anche l’abbattimento generalizzato dei prezzi (scelta così sistemica da diventare politica, per quanto di matrice criminale), hanno contribuito a rafforzare.
Inoltre, il consumo non è più concentrato nelle periferie degradate ma è divenuto trasversale, segno che le sostanze (alcoliche e non) non servono a lenire un malessere sociale (o di classe) ma esistenziale, e quindi l’unica operazione possibile sul consumatore non è la paternale morale né la catechesi etica, ma la creazione di un universo alternativo di riferimento in cui la sofferenza e il vuoto vengano affrontati sul piano semantico e culturale, e non chimico.
Lo scarto fra il «non si fa» e il «c’è di meglio» può essere colmato solo dal dolore come unità di misura di un cambiamento che somiglia «all’imparare ad imparare» dell’orca marina di Bateson.