Ogni volta che un autore, soprattutto se cinematografico, penetra nel mezzo del cammin di sua vita, rischia di scivolare nell’autoreferenziale se non nell’autocelebrativo, ma non è questo il caso di «È stata la mano di Dio»: tranne l’incipit (più autocitazione che segno distintivo) e il dichiarato amore di stampo felliniano per le maschere, l’ultimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, distribuito da Netflix e candidato all’Oscar come miglior film straniero, è una pellicola di formazione toccante e ironica, tragica e intimista, un atto d’amore del regista per la città in cui è nato e dove ha ambientato il suo primo film nel 2001 («L’uomo in più»).
Nel cast, oltre al giovanissimo Filippo Scotti nella parte del protagonista (premio Marcello Mastroianni), si agitano alcuni ologrammi di Gomorra, il freudiano Toni Servillo (padre), un’impressionante Teresa Saponangelo (madre) e una Luisa Ranieri la cui fisicità quasi disegnata erompe in una scena di nudo così elegante da sfiorare il metafisico.
L’elemento più originale dell’opera, soprattutto per chi già conosce e ama il regista partenopeo, è l’abbandono di quella perfezione formale che dopo «The Young Pope» rischiava di imbalsamare uno stile, già di per sé riconoscibile e iconografico, nel manierismo.
TRAMA O NON TRAMA
Fabietto Schisa, alter ego di Paolo Sorrentino, è un adolescente della buona borghesia del Vomero, con un fratello aspirante attore scartato dal grande Fellini per la sua faccia «convenzionale», una sorella quasi invisibile, un padre banchiere e una madre ironica e appassionata; intorno agli Schisa ruota la variopinta parata di una famiglia barocca, a tratti cinica, ed è lì che ritroviamo il gusto sorrentiniano per il grottesco.
Fabietto è spaventato dalle donne, da grande vuole fare il regista e ama (d’un musiliano turbamento) sua zia Patrizia (Luisa Ranieri): mentre la Napoli dei primi anni Ottanta presiede all’apparizione di Maradona, declinandosi non in modo corale ma attraverso la lente convessa dell’adolescenza, il tradimento paterno prima e un’inattesa tragedia varano il giovane Fabio nel sottobosco criminale della città e nel sodalizio artistico col regista e maître à penser Antonio Capuano, che nella scena culmine del film, lo inviterà a non andarsene da Napoli e a non disunirsi, «se tiene qualcosa da dicère».
NAPOLI NON ESISTE
C’è un rispetto e una distanza nella rappresentazione che Sorrentino fa della sua Napoli che rendono la città di Croce e De Filippo, di Totò e naturalmente Maradona, il tendone su cui si proiettano le vicende Schisa, il mito d’una variopinta caverna circondata da un mare assoluto e onomatopeico (il commovente fischio d’amore con cui si richiamano i genitori di Fabietto e il «tuf tuf tuf» dei motoscafi sulle onde).
Già Ozpetek aveva provato a fissare su pellicola la bellezza velata di una metropoli impossibile, folcloristica e violenta, creola e superstiziosa, stoica ed eccessiva, così come l’immaginario periferico di Gomorra ci ha consegnato l’incubo patinato di piazze di spaccio ed ecomostri, edicole votive e vicoli riempiti dell’urlo di sirene, ma nessun regista è mai riuscito a cogliere Napoli nell’interezza delle sue contraddizioni, nemmeno l’immensa Wertmüller (RIP) col suo geniale «Pasqualino Settebellezze», e questo perché più che di una città si tratta di un titubante miraggio deposto sulla sismica trasparenza del Tirreno.
Erri De Luca identificava l’anima della città nella «naturale sveltezza di riflessi» di un adolescente olivastro ma ancora oggi l’incisione che meglio descrive l’acquaforte partenopea resta quella di Picasso: «mi chiedete di venire a Roma perché c’è il Papa ma io voglio restare a Napoli perché qui c’è Dio».
GRUPPO DI PERSONE IN UN INFERNO
Sorrentino perde entrambi i genitori per una fuga di monossido di carbonio dalla stufa della casa montana di Roccaraso e diviene improvvisamente orfano. Altri due personaggi non del cinema ma della letteratura contemporanea hanno subito la stessa sorte: Aldo Nove (leggete il bellissimo e straziante «La Vita Oscena») e Dave Eggers (consiglio «L’Opera struggente di un formidabile genio») e la condizione di orfano, come quella omerica di esule, donano all’artista un rapporto conflittuale con la città di nascita, di malinconia e paralisi, ispirazione e immobilismo.
«Fujitivenne», esclamava un senile De Filippo ai giovani napoletani, soprattutto a quelli che volevano tentare la carriera artistica e questa affermazione, dapprima eletta a simbolo di una meridionalità tradita e disincantata, quindi derubricata a semplice critica istituzionale da parte di un uomo riconosciuto in tutto il mondo ma che non era riuscito a realizzare nella sua città ciò che avrebbe voluto, è presente ne «È stata la mano di Dio», quando Fabietto vorrebbe andarsene a Roma (cosa che poi farà) e l’attore che interpreta Capuano gli consiglia di non farlo se ha qualcosa da dire (in effetti Capuano, prima marinaio e pescatore che regista, ha vissuto per un periodo nella Capitale ma si sentiva smarrito senza il «suo» mare).
Sorrentino non andrà coi suoi genitori a Roccaraso, seguirà invece per la prima volta il Napoli di Maradona nella trasferta di Empoli e un sempre notevole Cancellieri (Alfredo) gli dirà che a salvarlo è stata la mano di Dio, la stessa in grado di vendicare politicamente l’Argentina dalle mire coloniali inglesi durante i mondiali dell’86.
La storia sportiva si fonde alla politica internazionale, il misticismo barocco adotta el Pibe de oro come simbolo pauperistico di riscatto, realizzando col primo scudetto del Napoli la più classica delle favole popolari, in una nazione che aveva, e tristemente ancora ha (per dirla alla Brecht), un disperato bisogno di eroi.
AMARCORD
In un passaggio del film, Fabietto osserva dagli spalti del San Paolo (oggi stadio Diego Armando Maradona) il suo idolo tirare in allenamento una serie impressionante di punizioni destinate all’incrocio dei pali.
«Cosa stai osservando?»
«?»
«La perseveranza».
Il cinema di Sorrentino, soprattutto da «Il Divo» in poi è il plastico risultato d’una perseveranza figlia di un’ossessiona autoriale evidente e a tratti persecutoria che ne «È stata la mano di Dio» lascia intravedere gli sprazzi di un dolore addomesticato in gioia cinematografica.
Il fuoriclasse argentino appariva già (obeso nella sua iconicità, come se l’uomo avesse ingoiato il personaggio) in «Youth» ed ora non ha fatto in tempo a vedere l’omaggio intimista di Sorrentino. Come il Carmelo Bene in «Lectura Dantis» apparso alla Madonna dalla Torre degli Asinelli di Bologna, egli è apparso a Maradona dall’obiettivo della sua macchina da presa che, simile all’ingresso equoreo a Venezia nel capolavoro di Mann, taglia il filo madreperlaceo e notturno di Napoli dalla prospettiva del mare.