Da molti anni ormai lo scrittore francese Michel Houellebecq infila la sua penna come uno scalpello nelle ossessioni postmoderne, divaricando la salma dell’Occidente come in un paradossale teatro anatomico: i suoi libri sembrano degli studi rinascimentali sul corpo umano vergati a sanguigna sulla carta pergamena dell’inconscio collettivo.
Dal folgorante esordio à la Camus con «L’estensione del dominio della lotta», in cui già tracciava le coordinate della sua estetica dissacrante (cinismo, demolizione degli autoinganni, inclusi i suoi, implosione della libido, horror, o amor a seconda dei punti di vista, vacui, e il dilatarsi irrefrenabile d’una logica di mercato pervasiva e ottundente), passando attraverso il successo planetario de «Le particelle elementari», certificato dall’omonimo e notevole film, fino ai più recenti «Piattaforma» e «Sottomissione», il primo in grado di procurargli accuse di misoginia e immoralità, il secondo pronto a divenire la cassa di risonanza di molte esternazioni pubbliche in chiave antislamica (in realtà, a ben leggere, e fuori dalle amplificazioni mediatiche stile Lars Von Trier, «Sottomissione» è una feroce accusa al venir meno della cultura cattolica, sul piano ideologico e etico, oltre che religioso, e l’aspetto più inquietante di quest’opera è l’analisi di un’espansione islamica in terra francese tutt’altro che violenta, direi piuttosto politica).
Ma Houellebecq è anche regista e saggista, poeta e fotografo: per la fotografia rimando a «Lanzarote», mentre per la poesia (a mio avviso di livello assoluto) è interessante il sodalizio artistico del docu-film «Restare vivi», in cui il Nostro duetta con l’improbabile, e invece incredibilmente appropriato, Iggy Pop, riuscendo a istituire un metodo di gestione della disperazione che sembra una sorta di manuale di sopravvivenza in salsa anti-new-age.
Tutti gli estimatori del coriaceo, e coltissimo (è bene ricordarlo), scrittore francese hanno sperimentato almeno una volta l’incredibile effetto catartico delle sue opere che, pur precipitandoci in abissi senza speranza e cavalcando iperboli distopiche che sembrano l’evoluzione poco rassicurante dei cortocircuiti di Saramago, finiscono col curarci liberando una sensazione di sollievo fisico paragonabile solo ad alcuni bagni termali o ad esperienze sensoriali estreme.
SEROTONINA
Il protagonista del suo ultimo «Serotonina», è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che dopo aver scoperto le perversità nascoste della propria compagna orientale, che ha ormai smesso di amare da anni, decide di licenziarsi e abbandonarla, dando il via a una parabola autodistruttiva che lo spingerà a rivedere alcune sue ex, e uno storico amico alle prese con una crisi lavorativa tale da anticipare, come tematiche, la rivolta dei gilet gialli.
Florent, nome grazioso per un uomo affetto da inguaribile misantropia, si affiderà alle cure di uno psichiatra disincantato e un po’ hippy che, senza mezzi termini, gli prescriverà uno psicofarmaco di ultima generazione in grado di liberare serotonina e di tenere a livello la sua depressione ma con una unica, e letale, controindicazione: l’impotenza.
Chiave interpretativa di una vita allo sbando, il protagonista accetterà quest’autocastrazione come l’obliterazione chimica di un’impotenza esistenziale, migrando di hotel in hotel, alla ricerca di strutture ricettive che tollerino il suo tabagismo (e qui l’attacco al politicamente corretto è frontale), e scivolando lentamente nell’alcolismo e nella demenza.
Ma non bisogna lasciarsi ingannare da facili miraggi di autocombustione: Florent/Michel cita Schopenhauer e Cioran, la sua spietata analisi del declino della società francese è la sineddoche del tramonto dell’Occidente, di un’Europa schiacciata dalla globalizzazione e di un Capitalismo che nel suo tentativo di ampliare il palinsesto dei piaceri, ha distrutto il motore del desiderio.
Il desiderio (vedi Lacan) è un vuoto e un’assenza, un verbo anteriore coniugato dall’attesa e non l’immediato percettibile.
«Lei sta letteralmente morendo di tristezza», sentenzia un sorpreso psicoanalista di fronte a un imbolsito e ormai impotente Florent, e al povero funzionario (povero si fa per dire, visto che finanzia la sua autodistruzione con un ingente capitale di famiglia) non resta che tentare la pianificazione di gesti violenti che non sarà in grado di compiere.
«Sono solo un patetico finocchio», concluderà cedendo le armi (metaforicamente e non solo).
AVERNE «LE PALLE PIENE»
«Checchè se ne dica, l’accesso all’universo artistico è riservato quasi esclusivamente a chi ne abbia un po’ le palle piene», scriveva Houellebecq nel suo saggio su H.P.Lovecraft (che a suo avviso «ne aveva parecchio le palle piene»), e di questo disgusto esistenziale Serotonina abbonda, ma senza mai scadere nel giudizio generalizzato visto che il principale colpevole dello sfacelo in cui sprofondiamo è l’identikit di Florent stesso: pavido, indolente, incapace di stabilità affettiva e professionale, e soprattutto dotato di un’intelligenza così lucida da sottolineare il proprio fallimento senza alcun appello.
Michel vorrebbe consolarci ma non può: in un bellissimo passaggio del libro Florent si trova alle prese col suo storico amico e con altri conoscenti agricoltori; l’intero collettivo sta per compiere un gesto dimostrativo che rischia di trasformarsi in una simbolica e violenta ritorsione e lui ha la chance di fermarli, in qualche modo rassicurandoli sul loro prossimo futuro (in quanto funzionario del Ministero dell’Agricoltura, questo è o dovrebbe essere il suo ruolo).
In un monologo di dieci righe carica la pistola del dissenso con pallottole perforanti.
Forse qualcuno potrà obiettare che si tratta solo di fiction, o autofiction, e che Houellebecq è solo un neo-Céline col gusto del paradosso, una sorta di Camus mondano che vuole scandalizzare la borghesia ma senza l’apparato ideologico del marxismo ma, come Florent, Michel si è laureato in agraria (nel 1978) e, come Florent è tutt’ora impegnato sentimentalmente con un’orientale.
Il pretesto (o macguffin per dirla alla Hitchcok) narrativo del farmaco Captorix è solo una patina di colore sul bianco e nero iperrealista di una visione tutt’altro che filtrata: Florent è Houellebecq e Houellebecq saremmo noi se sfuggissimo alla seduzione dell’intrattenimento rifugiandoci tutti in un’impotenza difensiva, senile, acuta.