In un futuro sempre più vicino, con una società rigidamente divisa in classi (il colore bianco designa i grandi proprietari, quello grigio gli intellettuali e i professionisti, il rosso le associazioni dei consumatori, il blu gli industriali), la terra è dominata dalla multinazionale Creamondo che, gestita dal suo centenario ma ancora lucido fondatore, smercia delle bolle in cui ogni adulto riversa le proprie frustrazioni creative.
Dopo aver assistito a un inspiegabile (e collettivo) fenomeno di distruzione delle bolle partecipanti a un concorso, l’intellettuale e membro del Consiglio Nathan Hull, si rifugia a casa dell’amico Burt con la fidanzata Julia, e lì prova a spiegare la sua teoria sulla follia dionisiaca cui i tre hanno appena assistito.
Di lì a breve Nathan presenterà una mozione al Consiglio di cui fa parte per mettere fuori legge le bolle, a suo parere immorali, ma dopo un clamoroso fallimento, vigilato dalla senescente figura del presidente della Creamondo, la scoperta, da parte di una cordata astronomica, di pianeti abitati, renderà completamente inutili le bolle, in quanto surrogati di qualcosa che già esiste.
Ma il finale, equamente diviso fra folle scese in campo per festeggiare la recente scoperta, e un terremoto così esiziale da distruggere il nuovo tunnel sul Pacifico che collega gli Stati Uniti all’Oriente, fa sorgere nella mente di Hull un’inquietante ipotesi.
BOLLE ED ALTRE BOLLE
Scritta originariamente nel 1953, anche se ripubblicata più volte in raccolte postume, questa short story di Dick stupisce non solo per la capacità evocativa (e simbolica), ma anche per la funzione oracolare che anticipa l’avvento della Rete, e delle psicosi a lei collegate.
«Mi sono fermato al Giurassico», sospira l’industriale Burt dopo aver acceso e ingrandito la sua ventesima bolla in cui, sotto un sole sfumato d’azzurro, fra miasmi di materia in decomposizione, rettili si torcono in oscene convoluzioni. «Non riesco mai a passare ai mammiferi», conclude amaramente. E dire che poche ore prima Hull e Julia hanno assistito a bolle evolute fino al Pleistocene e all’Olocene, ed una (la vincitrice del concorso) in grado di raggiungere persino lo stadio evolutivo presente.
Ma cosa sono le bolle? O meglio cosa rappresentano?
Si tratta di sfere di vetro di piccole dimensioni in grado di riprodurre, se ben guidate, dei veri e propri mondi subatomici fino ai trenta decimali: nate per supplire all’atroce delusione di aver scoperto ben otto pianeti inabitabili e deserti, e quindi concrete possibilità consolatrici di fronte al vuoto pneumatico dell’universo, dopo un iniziale e generalizzato entusiasmo (in grado di partorire un manuale d’istruzioni per bambini, in un discutibile quanto pericoloso afflato pedagogico), si sono trasformate in serbatoi di frustrazioni ed energie malriposte, generando episodi di violenza rituale da parte di un’umanità annoiata e priva di speranza.
«Perché distruggere una bolla cui si lavora da 60 anni?», chiede una sconvolta Julia. Per il pragmatico Burt si tratta di mancanza di ulteriori opportunità di sfogo, ma Nathan ha un’altra teoria: l’umanità contava sulla scoperta di altre civiltà con cui scambiare merci, idee, luoghi da visitare per interrompere, fra le altre cose, la monotonia di una routine in cui il lavoro è ormai completamente in mano a robot e robotroni, ma l’aver trovato solo inospitali ammassi di rocce e sabbia, ha precipitato l’essere umano in uno stato di prostrazione emotiva che nemmeno l’intrattenimento televisivo ha potuto lenire.
Ergo, le bolle.
A prescindere dalla proiezione utopica (e sinistrorsa) di un futuro libero dal lavoro grazie alle macchine (il Capitalismo ci sta conducendo a uno scenario esattamente opposto), la parabola raccontata da Dick è di un pessimismo inappellabile: non c’è vita al di fuori della terra e se ci fosse sarebbe votata ad atti distruttivi molto simili ai nostri. Il magnate delle Creamondo schernisce Hull perché pretende di abbattere il suo impero usando argomentazioni morali, ma l’intellettuale non è migliore di lui quando non è in grado di ipotizzare alcun’alternativa possibile, al di fuori del dialogo, pronunciando un gelido: «dopo saranno affari vostri».
COLONIALISMO E MITOPOIESI
Dietro l’immagine, ingrandita e amplificata, di interi mondi popolati da uomini e donne chiusi in una bolla, si cela una feroce critica a una sorta di colonialismo esistenziale, non più volto allo sfruttamento fisico di legioni di schiavi, ma alla semplice contemplazione della loro evoluzione in vitro, fino alla smania orgiastica della distruzione; Dick anticipa le più avanzate frontiere del gaming e del voyerismo da web ma, da bravo scrittore distopico, spinge la propria metafora fino all’iperbole del genocidio.
Uccidere con un joystick e un satellite un villaggio di fondamentalisti in Medio Oriente, far tumulare con sé un’intera coorte come un antico e malvagio faraone, torturare un insetto o distruggere un giocattolo: non si tratta di istinti (la migliore psicoanalisi ci ha insegnato che gli istinti sono animali, le pulsioni umane) ma del libero arbitrio che fa dell’uomo una protesi divina in grado di sviluppare nei confronti del potere una sorta di tossica dipendenza.
Il vero potere non è creativo ma distruttivo, in quanto esente da qualsiasi sanzione o tabù morale.
In questo senso «il mondo in una bolla» (the trouble with bubbles) è un monito alle infinite potenzialità di una tecnica che ha sostituito l’economia nel manipolare la politica e che se non guidata saggiamente, potrebbe iniziare ad incubare bolle pronte poi a deflagrare: l’indifferenza che mostriamo di fronte all’ennesimo cataclisma o guerra civile trasmesse dalla CNN, sono la testimonianza di un mondo suddiviso in bolle da osservare a debita distanza.
Philip Dick ci invita a rovesciare la prospettiva ricordandoci, come un profeta veterotestamentario, che premendo i polpastrelli sul vetro di un acquario, potremmo diventare noi i pesci il cui destino è deciso da qualche feroce e infantile divinità, preda della noia o del sadismo.
Germano Innocenti