Ora che ci troviamo in una fase di gestione pandemica quasi post-bellica, il termine «ricostruzione» può essere inteso non solo in senso metaforico, e la dolorosa lente d’ingrandimento rappresentata dalla pandemia, che ha evidenziato limiti e storture del sistema-scuola (limiti di cui gli addetti ai lavori erano già colpevolmente consapevoli), dovrà servire alla presa di coscienza di ciò che non ha funzionato ma anche a una progettazione seria che trasformi le criticità in risorse, altrimenti la suddetta lente finirà col bruciare ogni tentativo di palingenesi.
Visto che si parla di edilizia, dopo quasi due anni di didattica a distanza, blended learning e didattica integrata, la scuola come spazio fisico, luogo di aggregazione e inevitabile innesco di ricordi condivisi, è tornata centrale; non dissimile dal cumulo di macerie di un bombardamento, in questo caso più mediatico-concettuale che concreto, l’edificio scolastico appare malconcio e vessato dal fuoco incrociato delle famiglie, dei partiti e talvolta persino delle organizzazioni sindacali.
Una sola categoria sembra averne riscoperto l’importanza. Dopo ore d’interminabili dirette, occasioni perse e solitudini incubate al lattescente riflesso d’una connessione più che mai insufficiente (tecnologicamente e umanamente): i ragazzi.
PANDEMIA:LA QUARTA PARETE – Il tetraedro della scuola, ai tempi del lockdown, si edifica su tre facciate: l’asse spazio-temporale; la connessione; i trasporti. La quarta parete, abbattuta dalle perverse dinamiche del Covid, è la mutazione da semplice Ateneo a luogo totale, svincolato da obsoleti prefissi come «pre» o «extra», moltiplicato nel tempo (pieno) e nello spazio (aule diffuse e didattica aumentata).
La risonanza pandemica ha evidenziato diseguaglianze e povertà educativa: dal 2010 al 2018 il trasporto pubblico scolastico è passato dal servire il 33% degli edifici al 23%, le iniziative eco-compatibili sono scarsissime (pedibus 6% e bicibus 1%), oltre che parzialmente distribuite nello stivale; il tempo pieno, strumento prezioso soprattutto per le famiglie in cui lavorano entrambi i genitori, è molto sviluppato al Centro (67%), poco al Nord (40%) e pochissimo al Sud e nelle Isole (rispettivamente 9,5% e 18,4%); i progetti educativi e le iniziative extrascolastiche vantano al Settentrione un 80 e 62% mentre al Meridione si scivola al 63,6 e 28,6%.
Uno dei principali limiti evidenziati dalla pandemia, limite che la scuola condivide con la propria gemella sociale, la Sanità, è la scarsa integrazione col territorio (i fantomatici e a lungo decantati «Patti educativi di Comunità»), ma anche la digitalizzazione ha mostrato il fianco a una metamorfosi non solo strutturale ma socioculturale (se non antropologica) con una misera copertura nazionale, per il wi-fi al 34% e per la Rete completamente cablata al 29%.
Se si vuole concepire un’idea di scuola che non coinvolga solo gli studenti ma tutti i cittadini, sul modello dei «Civic Center» anglosassoni, è necessario un cambio di mentalità e uno scarto di concezione edilizia che ci liberi dai blocchi squadrati e dalle architettoniche nostalgie fasciste.
PIANO PER UNA RIPARTENZA POST-PANDEMICA – Nel precedente articolo di questo dossier sull’edilizia scolastica abbiamo evidenziato, rileggendo la XXI indagine di Legambiente sull’ecosistema scuola, le criticità di tale sistema mentre ora cercheremo di dettare le possibili linee di spesa da qui alla cruciale tappa del 2030:
- Completare l’anagrafe dell’edilizia scolastica entro il 2021, ed elaborare un piano delle priorità da realizzare entro il 2030;
- Procedere all’adeguamento sismico di tutti gli edifici scolastici in aree sismiche 1 e 2. In Italia appartengono alla prima area sismica (rischio alto): Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo, Molise, Umbria, Campania, Sicilia, appartengono alla seconda area sismica (rischio medio-alto): Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Puglia e Basilicata;
- Incrementare l’efficientamento energetico fino a diminuire i consumi (per edificio) del 50%;
- Rafforzare la funzione di supporto, monitoraggio o, in caso di forte rischio, perfino di sostituzione della task force per l’edilizia scolastica verso gli EELL proprietari degli edifici;
- Creare una generazione di 100 scuole costruite secondo i criteri sostenibili della bioedilizia, site nelle periferie sociali della nazione e dotate di mense e palestre, aperte anche in orario extrascolastico;
- Riqualificare energeticamente gli edifici trasformando la comunità scolastica in comunità energetica;
- Moltiplicare gli spazi mensa in modo da incentivare le classi a tempo pieno in tutto il territorio;
- Decretare tutte le scuole «plastic free» (ad esempio contrastando l’uso delle stoviglie monouso, già al 50% e ultimamente cresciute sotto la pandemia per ovvie esigenze sanitarie);
- Migliorare il trasporto pubblico scolastico, piste ciclabili, percorsi protetti, pedibus, bicibus e via seguendo;
- Diminuire il numero di alunni per classe (stando anche alla demografia che prevede per i prossimi dieci anni un calo della popolazione da 0 a 18 anni di un milione di unità);
- Cablare tutti gli edifici e bonificare quelli che ancora presentano amianto.
In un corso di formazione promosso dall’Ordine dei giornalisti, un geologo esperto in mappatura del territorio evidenziava la principale differenza, sul piano di mentalità operativa, fra Italia e Stati Uniti, proprio nella nostra tendenza a «conservare» più che a «ricostruire»: «negli Stati Uniti se ricostruire un borgo distrutto da un sisma o da un tornado venti miglia più a valle fosse meno dispendioso nessuno muoverebbe obiezioni storiche o paesaggistiche».
Verrebbe da dire che gli Stati Uniti sono un paese decisamente più giovane rispetto all’Italia e con un patrimonio artistico e culturale praticamente inesistente, se rapportato al nostro, ma sul piano dell’edilizia scolastica, e meno di significative eccezioni, prendere in prestito un po’ di sano (soprattutto dal punto di vista della bilancia dei pagamenti) pragmatismo yankee, potrebbe non essere una cattiva idea.