Aprire un articolo dedicato a Piccole donne (Little Women, 2019), scritto e diretto da Greta Gerwig, con un excursus sulla trama del film sembra quasi superfluo, per quanto ben nota è la vicenda delle sorelle March, nate dalla fantasia dell’autrice statunitense Louisa May Alcott e fortemente ispirata alle sorelle della stessa scrittrice. Il primo romanzo a loro dedicato fu pubblicato nel 1868, in Italia poi diviso in due volumi (Piccole donne e Piccole donne crescono): un successo talmente clamoroso da meritare due seguiti, Piccoli uomini e I ragazzi di Jo. Una serie di romanzi seminali per la formazione di ogni adolescente occidentale, una vera e propria epopea familiare che, in un’affascinante ambientazione da guerra civile americana, segue la ribelle scrittrice Jo, la materna Meg, la vanitosa e creativa Amy e la dolce e sfortunata Beth, dall’infanzia fino alla maturità, dalle piccole gioie e i piccoli dolori dei bambini, al malinconico sguardo sull’età adulta e su una giovinezza che rimane solo un lontano ricordo.
Se poi qualche lettore poco attento avesse saltato questa lettura di formazione nella propria adolescenza, il cinema ha garantito una lunga vita anche di celluloide alle eroine di Alcott, con ben sette adattamenti, dal primo muto del 1918, passando per le iconiche versioni del 1933 e del 1949, fino ad arrivare alle versioni più moderne, fra cui quella del 1994 e la versione di Gerwig sono certamente quelle di maggior successo.
La modernità di un classico
Perché tanta attenzione per questa piccola storia domestica, in cui il banale e il quotidiano assumono quasi le dimensioni dell’epico? Forse la risposta è proprio da cercare in quell’intimità che Alcott crea nel suo piccolo mondo casalingo, un’intimità talmente sentita (e sincera) che inevitabilmente finisce col coinvolgere sia il lettore che lo spettatore. Forse è anche merito della novità che un simile approccio offriva alla fine del diciannovesimo secolo, in una letteratura americana che tra balene bianche e lettere scarlatte (Hawthorne era un amico di famiglia degli Alcott, e occasionale tutore di Louisa) spesso si dimenticava della dimensione umana e del calore del nucleo familiare, quasi sempre relegato a raccontini morali che poco avevano della freschezza e del realismo giovanile offerto dagli amori, amicizie, incomprensioni, crucci, litigate e riappacificazioni di Jo, Meg, Amy e Beth (e del ragazzo della porta accanto, Laurie).
La saga delle sorelle March naviga tra commedia e tragedia, ci parla di natali senza regali, di compassione, di guerra, di lutto, ma anche di frutta candita che diventa uno status symbol, di pomeriggi d’estate passati nell’ozio, di ciocche di capelli bruciate da un arricciacapelli che assumono i connotati di tragedie greche. Tutto è emozione, tutto è trasporto, tutto è colorato nelle vite di queste quattro piccole donne del Massachusetts, un caleidoscopio di reazioni esagerate e teatrali che sono proprie dei ragazzi, e che rendono la crescita un’avventura quotidiana.
Non dovrebbe sorprendere, quindi, se nel 2019 una regista sensibile alle tematiche adolescenziali come Greta Gerwig, che qualche anno fa aveva firmato un capolavoro del cinema coming-of-age come Lady Bird, riesca ancora a trovare qualcosa di attuale in una storia così fissata nell’immaginario collettivo.
«In ogni momento della storia, ogni persona è sempre stata la versione più moderna dell’umanità» ha detto la regista in un’intervista rilasciata all’uscita del film: un’affermazione che nella sua ovvietà ci fa riflettere sul modo in cui percepiamo il passato, che spesso ci sembra statico, privo di vita, ma che invece brulicava della stessa umanità che ci circonda oggi. Ecco il segreto del successo del film: le piccole donne di Gerwig non sono una versione moderna delle March, che cercano di scimmiottare i comportamenti e gli atteggiamenti degli adolescenti contemporanei, ma personaggi del 1868 cui la regista permette di vivere senza quelle restrizioni con cui la finzione storica inamida le immagini del passato. Si muovono, agiscono, parlano e pensano con la stessa vivacità mentale della loro autrice (femminista e abolizionista convinta). Sono protagoniste del loro tempo, lo vivono invece di rappresentarlo, e per questo risultano così vicine a noi, malgrado i quasi due secoli che ci separano da loro.
I ruoli di genere e il femminismo inclusivo
L’aspetto più vivace di questi personaggi, straordinariamente moderni eppure fedeli all’originale, sta proprio nella loro femminilità e nella maniera in cui la vivono in una società che premia e ascolta solo gli uomini. Meg reclama il proprio ruolo di moglie e madre, vivendolo da protagonista e non subendolo; Beth, nella sua breve vita, nasconde dietro un’apparente fragilità tutta la forza di un punto di riferimento per l’intera famiglia; Amy non si accontenta di passare inosservata: come artista vuole essere grande o non essere niente; Jo insegue la sua creatività rimanendo con i piedi saldamente ancorati a terra, concreta nel volersi rendere indipendente ma anche consapevole che per una donna l’indipendenza economica e sociale può trasformarsi in solitudine. Eppure, Jo sceglie sempre, inesorabilmente, sé stessa, non sposa l’amico di una vita, il ragazzo bello e ricco che la ama perdutamente, ma aspetta la compagnia di un suo pari intellettuale che non abbia paura di criticarla, che la tratti come un essere umano e non come un ideale da porre su un piedistallo.
È un mondo al femminile che, secondo Gerwig, rappresenta anche la prima versione letteraria di un femminismo moderno e inclusivo, che eleva e migliora sia donne che uomini. Laurie vive solo nella sua grande casa fredda e impersonale e sogna, spiandola dalla finestra, di poter far parte della realtà calda e confortevole di casa March. Viene accolto come la quinta sorella (prima ancora che come interesse romantico) e dalla sua immersione in un modo tutto declinato al femminile ne esce migliorato, in pace con sé stesso. Greta Gerwig l’ha definito il primo personaggio maschile della letteratura occidentale che desidera far parte di una piccola struttura spiccatamente matriarcale, mentre fino a quel momento erano le giovani lettrici a sognare di salire sul Pequod come parte di una ciurma di soli uomini.
L’educazione
Tra le tante versioni cinematografiche del classico di Louisa May Alcott, quella di Gerwig è forse quella che meglio evidenzia un aspetto spesso poco apprezzato dell’autrice americana: una visione incredibilmente all’avanguardia dell’educazione, in particolar modo quella femminile. Alcott era figlia di un educatore che l’aveva fatta studiare sotto il tutoraggio di alcuni degli intellettuali più ricercati e innovatori del tempo, tra cui il citato Hawthorne. Ma fu dalla madre, una pioniera dell’assistenza sociale, che Alcott prese la convinzione che la vera uguaglianza tra uomo e donna sarebbe arrivata solo attraverso un approccio egalitario all’educazione. L’autrice, proprio come la sua eroina Jo, lavorò come tutrice per sostenersi negli anni precedenti al successo letterario, e nella sua opera fa tornare Jo all’insegnamento, come direttrice di una scuola totalmente egalitaria, che accoglie studenti di ogni genere e provenienza sociale.
Nella rilettura del romanzo, Gerwig spesso sottolinea l’importanza dell’educazione e il ruolo dell’educatore (in positivo e in negativo). Gli educatori del film sono tutte figure maschili che ben rappresentano il disequilibrio di genere nelle realtà scolastiche del tempo: il maestro di Amy, insofferente perché costretto a lavorare in una scuola femminile, è arcigno, ingiusto e incompetente, fa di tutto per mettere a tacere qualsiasi slancio creativo o indipendente nelle sue allieve, e allontana Amy dalla scuola. Nelle scuole le ragazze, afferma Meg, sono perennemente maltrattate. Quando si negano i mezzi e le competenze, si allontana sempre di più la possibilità di raggiungere una vera uguaglianza, concetto che si potrebbe applicare ancora oggi a tante realtà scolastiche emarginate.
Lontana dalla scuola è anche Beth, perché la sua fragilità emotiva non viene minimamente compresa da un sistema rigido e spartano. Non sono scelte narrative casuali, e ricalcano tanto la trama del libro quanto l’esperienza della sua autrice, visto che il severo padre e precettore di Alcott era convinto che negare sé stessi, le proprie peculiarità e i propri piaceri, equivalesse a seguire la retta via.
John Brooke, l’insegnante privato di Laurie, è il simbolo di un intellettualismo svogliato e superficiale, che vede nell’educazione non una vocazione ma un lavoro da abbandonare alla prima offerta migliore. Non sorprende quindi che in una delle scene più delicatamente bizzarre della pellicola, troviamo Laurie in piedi su una sedia (impettito e grave) assorto a vivere la sua fantasia da eroe byroniano, e completamente disinteressato alla monotona lezione impartita dal precettore.
L’educazione diventa un successo solo quando esce fuori dagli schemi diventando uno slancio di vivacità mentale. È il metodo educativo del professor Bhaer, straniero in terra americana che, additato come alieno, offre ai suoi pupilli una prospettiva diversa.
Diventa un successo quando a perseguirla e poi impartirla sono proprio quei personaggi a cui l’educazione è negata: lo straniero e le donne. Prima ancora di diventare tutrice, anni prima di avere una sua scuola, Jo insiste per educare le sorelle perché è solo attraverso una mente aperta a tutte le possibilità del mondo che una donna può far sentire la sua voce, troppo spesso silenziata da chi teme, assurdamente, che l’uguaglianza di genere sia un pericolo per l’equilibrio sociale. Lo scriveva Louisa May Alcott nel 1868, lo ribadisce Greta Gerwig nel 2019, e fa davvero paura quanto poco sia veramente cambiato in centocinquant’anni.
Ciro di Lella