Nato come doppio album musicale nel 1989, e poi trasposto per il teatro, «Il Grigio» rappresenta un punto di svolta nella già sterminata carriera di Giorgio Gaber, e un unicum nella storia della drammaturgia italiana, in quanto il teatro-canzone del Signor G. si cristallizza in un monologo senza perdere nulla dei colori timbrici e dell’ironia del suo autore: la musica, emozionale contrappunto agli assoluti del testo, confeziona prima la meschinità, poi le paure, quindi la consapevolezza del protagonista, costruendo quasi una domotica del suono, fatta di vere e proprie stanze, e soprattutto dello sguardo che si perde dalla finestra verso il mondo. E viceversa.
STORIA
Il Signor G. è Gaber e il Grigio è il Signor G.: come spesso accade nelle opere della maturità, il personaggio è un riflesso dell’autore e pseudonimi ed eteronimi si accavallano dando solo l’impressione della finzione: oggi si parlerebbe di autofiction, ma l’uomo che calca la scena de «Il Grigio» è un signore ben oltre la mezza età, il cui lavoro ha a che fare con la chitarra e la macchina da scrivere, un uomo blasé, giunto ai ferri corti con sé stesso, braccato dai poco teneri bilanci di una vita.
Confinato in una casa di campagna che ribattezza «L’Oasi», come il pallido tentativo d’esotismo di un anonimo ristorante meneghino, l’autore-attore capisce subito come non sia riuscito a lasciar fuori da quelle pareti ciò che lui definisce «la volgarità», e cioè il trambusto mondano della «fluorescenza» televisiva, il trionfo della quantità e del possesso, e proprio mentre realizza il fallimento del suo ascetismo, un rumore d’animale lo turba occupando un piccolo ma significativo spazio ai margini della sua solitudine.
Il monologo si spezza fra i tentativi di sopprimere Il Grigio, che nel frattempo capiamo essere un topo, e l’autodafè del protagonista, separato e con un figlio che possiede un gatto fulvo di nome Tobia, con un’amante che ha dato alla luce una figlia (forse) sua, e un imponente impresario che aspetta lo sviluppo di una sceneggiatura.
Attraverso una narrazione apparentemente lineare, l’uomo ripercorre la propria vita in ogni suo aspetto, scagliandosi contro le finte passioni e le simulazioni, la paura della masturbazione e dell’omosessualità, finendo per ammettere di essere stato più un personaggio che una persona, più un tentativo d’uomo che un uomo in carne ed ossa, e proprio quando sembra certo d’aver eliminato l’infame topo che ne rode la coscienza, una nuova consapevolezza sembra raggiungerlo graziandolo da un nichilismo amaro e solipsistico.
LA VOCE
La principale caratteristica del teatro-canzone era l’aprirsi dialogicamente al pubblico attraverso la suggestione musicale, che in qualche modo preparava il terreno alle parole; ne «Il Grigio», Gaber compie la stessa operazione attraverso un dialogo con sé stesso travestito da monologo interiore e gli episodi più alti, che si smarcano dal teatro di prosa raggiungendo vette di un lirismo assoluto, sono veri e propri lampi che rivelano la personalità di ognuno di noi.
Come ci riesce il Signor G.? Ma con la voce, ovviamente.
Da un’ironia cittadina intrisa di stanchezza, ansiosa di distruggere tutti i cliché della modernità, la voce si intenerisce parlando della ex moglie e del figlio, per poi incollerirsi con sé stesso e con Dio, per averlo reso incapace di amare e di essere amato, ma solo di essere ammirato, rivolgendosi al Creatore con acredine per il disprezzo che sembra nutrire verso il genere umano, e infine odiare prima e rimpiangere poi l’assurdo animale che lo costringe a fare i conti con sé stesso.
Siamo noi quella voce, prostrati dalle otto ore di lavoro, ingobbiti nel traffico, ansiosi per i nostri piccoli piaceri quotidiani, sollevati se qualcuno mostra di capirci senza giudicarci, siamo noi ad accettare il Bene e il suo contrario, senza più chiederci se sia luce o ombra, perché il segreto della consapevolezza sta nei mezzi toni.
La voce del confessore e del peccatore si confondono nel teatro totale di Gaber che dissolve i personaggi nell’alone grigio della terza colata delle fonderie, quando l’acciaio liquido raggiunge un grado di purezza quasi intollerabile e gli estremi si sfiorano.
IL TEATRO E IL SUO DOPPIO
In un bellissimo racconto, Kafka narrava di un animale e della cura impiegata nel costruire la propria tana, di come il pensiero dell’altro da sé, nemico o preda, avesse ridotto la propria esistenza a un ripiegare difensivo entro i confini di una paranoia escatologica e voyeristica.
La casa de «Il Grigio» è la tana di Kafka e l’orrido roditore il rumore che il predatore crede di sentire e che trasforma la sua vita in una fuga di ricordi votata alla sopravvivenza: non esiste alcun nemico (né topo) ma solo le nostre finzioni, l’incapacità di abbracciare l’esistenza nella sua totalità per capire che ogni doppio oblitera l’unità e non la sconfessa.
Germano Innocenti