Maps to the Sars: gli anticorpi monoclonali

da | Set 23, 2021 | SUI BANCHI DI SCUOLA

La Guerra contro il Covid è tutt’altro che finita: dalla massiccia campagna vaccinale, cui resiste la fronda no-vax e una mutevole frangia di indecisi, si è passati alla guerriglia territoriale, la cui difficoltà si manifesta soprattutto nelle trincee scolastiche.

Dopo la decisione di estendere l’obbligo vaccinale a tutti i dipendenti (sia pubblici che privati) dal 15 ottobre in poi, il Governo non può ignorare le prime proteste che arrivano da molte scuole italiane, dove i presidi sono in difficoltà nel garantire la continuità didattica, a causa delle «quarantene scaglionate».

Partendo dal presupposto che il rientro in classe, dopo la quarantena, non è più deciso su indicazione univoca della Asl, ma dai medici di famiglia di ogni singolo ragazzo, dai dodici anni in su uno studente vaccinato può rientrare dopo 7 giorni, i compagni non vaccinati dopo 10 (entrambi con tampone, rapido o molecolare, negativo), chi invece non vuole sottoporsi ad alcun test deve attendere 14 giorni.

Nonostante chi sia positivo (o in quarantena) possa sempre usufruire della Dad, a complicare ulteriormente le cose sono i genitori che non vogliono far eseguire il tampone ai propri figli; ne consegue che, a meno di non adottare il modello «alla tedesca», con quarantena obbligatoria solo per i contatti più stretti del positivo, tipo il compagno di banco, il tetris del rientro scaglionato rischia di frazionare colpevolmente l’offerta formativa, trasformandola in una sorta di piattaforma streaming di contenuti, che privilegia la prestazione a scapito della formazione.

PREMIARE I VACCINATI?

Se studiare le sanzioni di un popolo aiuta a comprenderne « a contrario» gli usi e i (mal)costumi, la storia delle infezioni che l’hanno afflitto è il negativo dei suoi vaccini: risale al 1796 la scoperta di Jenner che un virus animale (il vaiolo bovino) proteggeva dalla malattia umana; nel 1885 Pasteur scopre i vaccini realizzati con virus inattivati mentre combatte contro la rabbia; nel 1937 Theiler sigla il vaccino della febbre gialla (ci vincerà il Nobel nel 1951); nel 1963 parte la vaccinazione antipolio su scala globale grazie al vaccino vivo attenuato di Sabin; nel 1971 Hilleman sviluppa il vaccino trivalente contro morbillo-parotite-rosolia; nel 1980 Berg riceve il Nobel per la chimica, grazie alle sue ricerche sulla tecnologia a DNA ricombinante.

In nessuna di queste tappe ha mai avuto un peso rilevante il «paziente riottoso», come per i vaccini a mRNA utilizzati per sconfiggere il Covid: negli Stati Uniti Biden sta pensando di donare cento dollari a chi, ancora dubbioso, decida di vaccinarsi e, in vari stati americani si regalano birre o soft drinks, ciambelle, carte regalo o lotterie. Talvolta i singoli datori di lavoro decidono di premiare autonomamente i dipendenti che si piegano alla dose e, se anche Cina e Russia non sembrano estranee a un simile incentivo, in Italia si è arrivati (ci auguriamo provocatoriamente) a ricompensare i «buoni vaccinati» con un panino.

Non serve essere degli storici né degli psicologi del comportamento per capire che premiare chi ha una condotta sanitaria responsabile sia decisamente sbagliato, e che avrebbe molto più senso sanzionare chi non la adotta, o cercare di sensibilizzarlo ascoltando le sue obiezioni, qualora siano sensate e/o ben argomentate.

ANTICORPI MONOCLONALI

Quattro delle cinque terapie attualmente al vaglio dell’Ema (Agenzia Europea per i Medicinali) prevedono l’utilizzo di anticorpi monoclonali, e cioè di farmaci biologici a base di immunoglobuline prodotte in laboratorio, che imitano gli anticorpi che produce il nostro corpo: furono Köhler e Milstein i primi a parlarne sulla rivista Nature nel 1975, e la loro prima approvazione da parte della FDA avvenne a scopo terapeutico nel 1985.

Nonostante se ne stia parlando di recente per i loro possibili sviluppi legati al Covid (e per la discussa approvazione negli Usa dell’aducanumab contro l’Alzheimer), gli anticorpi monoclonali sono stati usati in passato anche per combattere l’Ebola, e negli ultimi anni hanno acquisito un notevole peso specifico in oncologia e nel trattamento delle malattie immuno-infiammatorie (bloccano la catena di eventi molecolari e potenziano la risposta dei pazienti).

Proprio due farmaci già utilizzati per malattie infiammatorie (come l’artrite), e cioè il tocilizumab e il sarilumab, in particolare in uso combinato coi corticosteroidi, sono stati sperimentati per i casi più gravi di Covid, quando l’infiammazione diventa sistemica, e si sono rivelati un prezioso aiuto.

Ma esistono due tipi (o classi) di anticorpi monoclonali:

  1. ANTICORPI AD ATTIVITÁ ANTIVIRALE: il processo per produrli è lungo e laborioso; si comincia prelevando il sangue da pazienti guariti o convalescenti, vengono isolati i linfociti B (che sono la matrice degli anticorpi nell’essere umano), poi coltivati singolarmente in vitro, quindi si iniziano una serie di test per capire quali siano i più idonei a legare con la famosa proteina Spike, che è il target dei vaccini anti-Covid. Infine, viene analizzato il DNA dei linfociti B che producono anticorpi con la migliore capacità di neutralizzare il virus (DNA la cui sequenza può essere modificata per migliorarne l’efficacia);
  2. ANTICORPI CON ATTIVITÁ ANTINFIAMMATORIA: Si tratta di farmaci riposizionati e riposizionabili che vanno somministrati, a differenza dei primi, nella fase più avanzata della malattia; nel caso già visto del tocilizumab, ad esempio, questo colpisce il recettore dell’interleuchina-6 (proteina che dà luogo a numerose azioni infiammatorie) contribuendo ad arrestarne i processi patogeni.

Il bamlanivimab/etesevimab (combinati), il casirivimab/imdevimab (combinati) e il sotrovimab (singolo), che non sono grottesche divinità partorite dallo scrittore H.P.Lovecraft ma anticorpi monoclonali statunitensi (con autorizzazione temporale in Italia), si sommano al MAD0004J08, in sviluppo da parte di una start up toscana: l’Ema non li ha ancora approvati formalmente ma li raccomanda caldamente perché riducono la carica virale e il tasso di ospedalizzazione, e perché i rischi correlati al loro utilizzo sono modesti.

Restano l’incertezza e la poca solidità dei dati, anche a causa di campioni di pazienti molto vari e delle terapie eterogenee, per non parlare del fatto che gli anticorpi monoclonali vanno somministrati a soggetti a rischio entro tre e non oltre dieci giorni dall’insorgere dei sintomi, cosa che risolleva il problema del labile cordone fra territorio e ospedali (visto che l’erogazione avviene endovena e in ambulatorio).

Infine, ma non in ordine d’importanza, non c’è ancora una distribuzione su larga scala di questi anticorpi ed è per questo che l’Oms sta invitando le aziende produttrici ad abbassarne i prezzi per ampliare la produzione.

Germano Innocenti

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