L’evoluzione della scienza medica, in termini patologici, registra l’affermazione e il perfezionamento della mascherina come dispositivo sanitario. Sebbene nessuna evoluzione, in termini epistemologici, sia mai lineare ma proceda a balzi come una corriera messicana, cercheremo di ripercorrerne le tappe attraverso il prezioso aiuto di Vittorio Sironi, docente e studioso di antropologia medica e di Storia della medicina e della sanità, che sull’argomento ha scritto un interessante libro dal titolo: «Le maschere della salute. Dal Rinascimento ai tempi del Coronavirus».
GENESI E SVILUPPO – Già in un precedente articolo, abbiamo descritto il costume del medico della peste e la medicina degli odori (XVI secolo), che legava la diffusione delle pestilenze ai miasmi e a uno stile di vita moralmente dissoluto, ma la vera rivoluzione si ebbe nel 1882, quando R. Koch, studiando la tubercolosi, scoprì che la causa delle malattie infettive non erano i cattivi odori ma i germi; questo non cancellò del tutto secoli di folclore e credenze popolari (rimaste invariate, per immobilismo antropologico, in molte popolazioni dell’Africa, dell’Australia e del Sud America), ma registrò un vero e proprio sisma copernicano negli ambienti medici.
Nel 1897, Johan Von Mikrlicz Radecki, fu il primo a ipotizzare l’utilizzo di una garza protettiva per il medico, e lo stesso anno il chirurgo francese Paul Berger gli diede ascolto eseguendo il primo intervento con l’ausilio di tale supporto; mentre, sulla scia delle scoperte di Koch, Paul Ehrlich lavorava su dei composti chimici o chemioterapici per agire contro i microbi delle malattie infettive (chiamandoli «Magic bullets», proiettili magici), Carl Flügge obliterava la prassi dell’asse Radecki/Berger, intuendo che può essere il medico stesso a infettare la ferita che sta curando, semplicemente parlando o respirando, attraverso la diffusione nell’aria di minuscole goccioline di saliva cariche di batteri.
È da questa serie di passaggi che, ai primi del Novecento, si diffuse la buona consuetudine di disinfettare tutta la sala operatoria, mentre Ignàc Semmelweis, un medico ungherese, promuoveva la disinfezione delle mani e il collega statunitense William Halsted, l’uso di guanti e protezione per i capelli.
MORFOLOGIA DELLA MASCHERINA – La medicina del Novecento, alle prese con prevenzione e cura di nuovi e antichi mali, capì che la mascherina, come dispositivo di profilassi, poteva essere utile non solo a proteggere il paziente dal medico, ma anche il medico stesso o chiunque si trovasse esposto al contagio: nel 1910-11, il dottore cinese Wu Lieu-teh, durante l’epidemia di peste in Manciuria, inventò la mascherina filtrante quando si accorse che quella chirurgica non era funzionale al contenimento del contagio. Si trattava di una rudimentale sovrapposizione di strati di garza disposti a conchiglia su naso e bocca, ma fu la progenitrice dei meccanismi di filtraggio inventati negli Anni Sessanta (e poi perfezionati nelle moderne mascherine Ffp2 e Ffp3); l’utilizzo di tali antesignani ridusse i contagi del 18/20%, durante l’influenza spagnola del 1918. Le attuali mascherine filtranti possono essere provviste di valvola, e in questo caso si facilita la respirazione ma aumentano i rischi di contagio per gli altri quindi, se ne consiglia l’uso soltanto agli operatori sanitari che devono lavorare per molte ore in un ambiente non pandemico. In buona sostanza, il teatro della profilassi contemporanea ha creato una dicotomia (che non va confusa con quella tragedia/commedia) fra mascherine chirurgiche, definite altruiste perché tutelano l’Altro, e mascherine filtranti, definite egoiste perché salvaguardano la salute del vettore.
MASCHERINE TERAPEUTICHE – La prima mascherina terapeutica è stata invece, sempre ai primi del secolo scorso, quella per l’anestesia, costituita da del fil di ferro intrecciato con sopra una garza imbevuta di etere o cloroformio, mentre negli Anni Sessanta videro la luce le «ambu», con un pallone auto-espandibile per la respirazione, e le C-pap, con una ventilazione meccanica a pressione positiva continua. Non hanno infine bisogno di presentazione le maschere antigas ad uso bellico, diffusissime come simbolo di spersonalizzazione clinica in tutta la cultura cyberpunk, e il loro equivalente a uso industriale, come prevenzione da polveri, gas, agenti chimici and so on.
FUNZIONE APOTROPAICA E AMBIVALENZA – Nelle culture primitive, e ancora oggi in molte tribù africane, lo sciamano eseguiva dei rituali danzanti o cantati, calzando maschere che servivano ad allontanare il Male e lo spirito maligno che lo incarnava; era questa la funzione apotropaica della maschera, che spesso riproduceva, per forma e fattezze, lo stesso morbo che andava a scongiurare (vedi la diffusissima incisione della lesione del settimo nervo cranico). Com’è noto, vertice dello sciamanesimo è l’identificazione con l’animale-Dio, che non si esaurisce nella semplice mimesi ma in un vero e proprio rito di adorazione/sostituzione; da un punto di vista patologico lo stregone diviene invece il demone che deve scacciare, indossandone la maschera in una sorta di purificazione o auto-catarsi.
Se la maschera, nel teatro classico, serviva come riconoscimento a distanza del personaggio, amplificazione della voce, e sublimazione a simbolo, il suo divenire sempre più dettagliata rimarcava il decadere della tragedia nel dramma borghese, descrittivo e prosaico; le attuali mascherine sono ambigue perché da un lato velano la nostra identità, dall’altro, nella metamorfosi in mascherine di lavoro, sport, e via seguendo, rispecchiano una classificazione sociale ormai estinta dal Novecento.
In un intelligente articolo di approfondimento, uscito nel bel mezzo della Quarantena, un giornalista esortava a non personalizzare le proprie mascherine, perché questo avrebbe sancito la definitiva resa al male attraverso la sua normalizzazione: per questo l’attesa di Draghi and co dell’abbandono del termine emergenziale, da parte di AIFA e EMA, per poter adottare l’obbligo vaccinale, è sospetta poiché inaugurerebbe, nell’anelito alla guarigione assoluta, lo sdoganamento della mascherina a fenomeno di costume, coi conseguenti disturbi, sociali e neurofisiologici, che deriverebbero (e derivano) dal non riconoscimento dell’Altro da sé.
Germano Innocenti