La maschera e la morte: i medici della peste

da | Set 7, 2021 | IN CATTEDRA

Nel marzo 2021, a un anno esatto dall’inizio della pandemia, il quotidiano inglese «The Sun» riportava la notizia di un inquietante personaggio vestito da medico della peste che si aggirava per le strade della località scozzese di Falkirk, terrorizzando i passanti. Nei giorni successivi, gli avvistamenti si moltiplicarono in Inghilterra, Irlanda e stati Uniti e, attraverso Tweet, Instagram, ma soprattutto Tik Tok, l’agnizione delle cupe maschere avvenne anche in Italia, e precisamente in Emilia Romagna e Calabria.

Le foto che molti utenti postavano, ipotizzando efferati atti di violenza compiuti dai soggetti avvistati, li ritraevano in lunghi mantelli neri, con guanti e copricapi dello stesso colore, vistose maschere a becco ed occhialini di vetro rotondi; da quando un utente Instagram aveva collegato l’assurdo «medico della peste» a un accoltellamento avvenuto nel locale parco di Falkirk, nonostante le forze di polizia non gli accreditassero simili episodi, e altrettanto facessero le più autorevoli testate giornalistiche, il panico si diffuse sui social riecheggiando di stupri e uccisioni perpetrati a giovani donne, soprattutto all’uscita di scuola, da parte delle ambigue figure.

Nonostante «The Sun» avesse poi chiarito quanto l’iniziale avvistamento fosse solo il frutto di uno scherzo, l’emulazione e la pubblicazione di foto fasulle scaricate dalla Rete (spesso cosplayer, o semplici mascherate carnevalesche), contribuirono al montare della paranoia: le fake news (o post-truth) circolate dimostrarono per l’ennesima volta non solo che la verità non è fondamentale per i suoi divulgatori (e nemmeno l’amore per la verità, la «parresia» degli Antichi Greci), ma anche che la distanza fra realtà e finzione si è accorciata al punto da far coincidere la narrazione con la cronaca (o di fondarla).

Lo storytelling mescola i piani narrativi, come nell’anacronismo storico dello steampunk o nell’ucronia (se i Nazisti avessero vinto la guerra?), così il metalinguaggio, cinematografico o letterario, si nutre di doppi cannibalizzando codici o sovvertendoli nella parodia, e persino la satira, non avendo più una realtà da schernire perché la realtà è già satira, finisce col sostituirsi ad essa, al punto che il comico diventa politico e il politico (un) comico.

Ogni vita diviene uno sgrammaticato tentativo di autofiction.

IL MEDICO DELLA PESTE

«Sui rivoli sanguinolenti, densi, velenosi, del colore dell’angoscia e dell’oppio, che zampillano dai cadaveri, strani personaggi vestiti di cera -con nasi lunghi un metro, occhi vitrei, e ai piedi una specie di sandali giapponesi fatti di un doppio strato di tavolette di legno […] passano salmodiando assurde litanie»; questa è la descrizione che fa del medico della peste Antonin Artaud, nel suo celebre «Il Teatro e il Suo Doppio» (1934), anche se l’invenzione di tale indumento si deve al medico di corte francese Charles Delorme, che nel 1619 ideò un abito integrale di marocchino, con maschera di cuoio, occhi di cristallo e un lungo naso pieno di sostanze aromatiche.

La storia delle malattie, e del loro legame con gli odori, inizia proprio nel Medioevo con la peste, poiché prima che Koch fondasse la batteriologia (ma siamo già nella seconda metà dell’Ottocento), si pensava che a diffondere il male fossero i miasmi e i cattivi odori.

Già Boccaccio, in una novella del Decameron, racconta di due maiali che, dopo aver sfregato il grugno sul cadavere di un morto appestato, «sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra», e la convinzione che il male si espandesse attraverso l’aria viziata e i cattivi costumi, generò l’istituto della quarantena e dell’esclusione sociale (il primo lazzaretto in Italia comparve a Ragusa nel 1397): simile al fenomeno dell’emulazione nelle fake news, nasce nel Basso Medioevo la piaga degli untori che imbrattavano di escrementi e di malsane emanazioni le abitazioni per poterle saccheggiare, o strangolavano nel sonno i proprietari per poi derubarli.

Si temevano pelli, piume, lino ma soprattutto il cotone, così la gente calzava scarpe lustre d’olio per evitare di raccoglierne involontariamente dei filamenti, si vantavano sanatori naturali come il Perù e la Svizzera, dove l’aria era salubre, e si criticava l’abbandono della pratica della mummificazione in Egitto, visto che le sue resine aromatiche contenevano un principio attivo che chiude alla putrefazione.

Sul piano teologico la peste è la frattura del patto fra Dio e l’uomo, la gente sfugge la gente, il panico serpeggia e la quarantena uccide la libera circolazione di merci ed esseri umani («c’è puzza e nessuno s’ama», sentenziava Santa Teresa d’Avila).

Ma come si combatteva la peste? Innanzitutto con aromi curativi come muschio, aloe, ambra e cinnamomo, pastiglie per fumigazioni, e pomi odorosi di origine orientale (sfere d’oro o d’argento, cave all’interno, decorate con pietre preziose e ripiene di profumi rari come l’ambra grigia), ma anche con le stesse pietre preziose a mò di contravveleno, su tutte la leggendaria «bezoar», in grado di rendere inoffensivo col semplice tocco il pungiglione di uno scorpione, e poi il frassino, persino l’arsenico, la cicuta e il vetriolo, usati per aumentare il potere immunizzante degli impiastri, ma per i poveri, che non potevano accedere a tali essenze, e a cui Ficino sconsigliava i bagni e l’acqua in genere, perché aprivano i pori della pelle alle infezioni, c’erano i poco costosi semi di mele cotogne, le bacche di ginepro e i lavacri di aceto tiepido, sia per la casa che per la persona, oltre alla salutare distanza da frutti considerati dannosi, come noccioli, querce o fichi.

Nel «Poème de la Grande Peste» del 1348, si rinnovava lo stigma sociale per i poveri, che non potendo usufruire degli aromi più pregiati, potevano soltanto: «pregare Dio, il misericordioso/ che sia per loro una buona difesa/ in ogni tempo di male e di offesa». Anche allora, come oggi, i meno abbienti erano i più esposti alle conseguenze (fisiche, morali ed economiche) delle pandemie.

Ma veniamo al medico della peste, il cui rituale di guarigione (consulto), somigliava più a una liturgia o a una pièce teatrale: prima che egli potesse entrare, la casa dell’appestato veniva aerata e disinfettata con un fuoco profumato, quindi visitata dall’assistente del medico con in mano un braciere dove ardevano incenso, mirra, rose, benzoino, laudano, storace e chiodi di garofano, a quel punto il medico entrava con in mano un ramo di ginepro acceso e nell’altra un pomo odoroso, un mazzo di fiori o una spugna imbevuta d’aceto.

Con un aroma vicino al naso, o indossando la famosa maschera a becco (rifornita di triaca, una mistura di 62 ingredienti usata per 18 secoli come panacea universale), e con in bocca una pasta profumata, egli iniziava la visita tastando il polso, la fronte e il petto al paziente, incidendo con un bastone provvisto di uncino le eventuali pustole e, in casi estremi, analizzando feci e urine, ma sempre circonfuso d’una nube di spezie curative.

Sembra una descrizione molto lontana dalla medicina attuale, ma l’isteria nel lavare le mani, il togliere le scarpe al rientro da un approvvigionamento, il Covid che impregnava muri e porte per lunghi periodi, la delazione contro i runner o i vicini poco ottemperanti, fino al negazionismo e ai rimedi casalinghi (dal «a noi veneti ci protegge l’alcol» al «m’importa ‘na sega» dell’anziano e stoico fiorentino), sembrano creare un folcloristico ponte fra le pesti di allora e la pandemia di oggi.

Un esempio su tutti: durante le epidemie, l’odore dell’altro rappresentava una tale minaccia che sul finire del ‘400 si stabilì un distanziamento sociale: almeno due cubiti (un cubito equivale a 50 cm) se si trattava di una persona sana, sei e più se si trattava di un malato, il tutto tenendo conto della direzione del vento e dell’ambiente in cui ci si trovava.

Ibidem.

Germano Innocenti

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