Quando, nel lontano 1976, un ancora relativamente giovane Brian De Palma sceglie di adattare per il grande schermo il primo romanzo di Stephen King («Carrie», 1974) lo fa con un budget ridotto e, nonostante sia al suo undicesimo lungometraggio, non ha ancora raggiunto un’unanime consacrazione; Carrie sarà un successo al botteghino, piacerà anche a King (da sempre critico con quasi tutte le riduzioni tratte dalle sue opere, basti pensare alla diatriba con Kubrik per «Shining»), ma soprattutto gli varrà ben due candidature all’Oscar, il plauso corale della critica, e il primo passo verso una cifra stilistica più che riconoscibile.
TRAMA
Carrie White è un’adolescente problematica che non gode di grande popolarità alla Ewen High, la scuola del Maine che frequenta e che si sta preparando al ballo di fine anno. Abbandonata dal padre, e con una madre divenuta un’invasata religiosa, la giovane ragazza dalla pelle di porcellana e dai lunghi capelli rossi (interpretata da un’iconica Sissy Spacek) vivrà un vero e proprio shock quando avrà le sue prima mestruazioni sotto la doccia durante l’ora di ginnastica; bullizzata dalle coetanee e infuriata con sua madre che l’ha tenuta all’oscuro di tutto, Carrie scopre di avere dei poteri di telecinesi che si scatenano nei momenti di massima rabbia e incomprensione.
Invitata al ballo dal fidanzato di una delle ragazze che l’ha sbeffeggiata, e che cerca così di espiare la sua colpa, l’efebica protagonista affronta sua madre e si prepara al debutto in società non sapendo che Chris (Nancy Allen, futura moglie di De Palma) e il suo fidanzato (John Travolta), stanno tramando un macabro scherzo ai suoi danni, poiché l’insegnante di ginnastica li ha esclusi dall’evento a causa della bravata commessa.
Il finale, deflagrante e vendicativo, varerà De Palma nell’olimpo registico di Hollywood, tra primi piani, distorsioni cromatiche, split screen, rallenty e scene girate alla rovescia, il tutto impreziosito da una recitazione sublime e dalle musiche di Pino Donaggio, che cita anche in alcuni passaggi i violini di «Psycho» (1960), omaggiando uno dei principali punti di riferimento artistici del regista, e cioè Alfred Hitchcock.
ROSSO
Rossi sono i capelli della protagonista, rosso è il mestruo che traccia il rito di passaggio svelando la furia telecinetica dapprima appena accennata quindi esiziale, rosso è il sangue di maiale che cade sulla testa dell’improbabile reginetta del ballo, chiudendo in un cerchio di impossibile accettazione una segregazione sociale che non può essere riscattata; già nella sua prima opera King abbozza l’identikit dei suoi perdenti («losers»), pronti a flirtare col soprannaturale poiché incapaci di rapportarsi con la famiglia e le istituzioni, e in questo geniale microcosmo che è divenuto il «suo» New England, il fantastico (coniugato con lo spaventoso) diviene una lente deformante di piaghe individuali e sociali.
In «It», la paura come metafora assoluta della crescita e dell’oblio, in «Cujo» la separazione dei genitori e la solitudine di un bambino di fronte a un mostro improvvisamente tangibile, tutta una letteratura (e un cinema) che manipola il genere per trarne allegorie in grado di oscurare l’horror odierno che, tranne qualche rara eccezione, sembra consacrato ai jump scare, all’estetica da videogame e all’autocannibalismo dato da spin off, prequel e sequel.
BULLISMO
Più evidente nel dimenticabile remake del 2013 e qui appena accennato, il bullismo che subisce Sissy Spacek è frutto di una cattiveria trasversale che non risparmia nessuno (nemmeno il preside che continua a sbagliarne il nome) ma che non ha la portata sociale e sistemica dell’attualità, forse perché il duo King/De Palma era più interessato a sondare il delirio religioso di Margaret White (una meravigliosa Piper Laurie) e il perturbante (e infibulante) rapporto madre-figlia, o forse perché Hollywood non era stata ancora contagiata dal politicamente corretto.
Le velenose angherie dei bulli kinghiani erano unidimensionali mentre oggi, con l’evolversi del bullismo in cyberbullismo, il Male è moviolato all’infinito fino a perdere la propria funzione apotropaica (e catartica).
Le Carrie White contemporanee non subiscono più la miopia di genitori e insegnanti, e spesso nemmeno delle aperte violenze individuali, ma si auto-bullizzano attraverso solitudini angosciate, malattie alimentari e discutibili miti dall’impeccabile silhouette cesellata da photoshop, anfetamine e l’uso massiccio di benzodiazepine.
Al cospetto di questa frustrazione, spesso strumentalizzata ma mai veramente compresa fino in fondo, la parabola distruttiva dell’eroina kinghiana appare quasi inoffensiva.
Germano Innocenti