La scuola 1995: il buco di Luchetti che non si è mai richiuso

da | Ago 23, 2021 | MONDOVISIONE

È il 1995 quando Daniele Luchetti conferma, dopo «Arriva la Bufera», la propria vocazione civile (che nel corso degli anni diverrà un vero e proprio trade mark) firmando la regia de «La Scuola», film tratto da tre romanzi di Domenico Starnone, già trasposti per il teatro, e sceneggiato, oltre che dal regista stesso, da Rulli, Petraglia e dallo scrittore di «Denti» e «Via Gemito».

La pellicola, iperreale e così votata (in senso critico) al cliché da restarne travolta, è un ottimo spaccato anni Novanta di quella crisi didattico-istituzionale che dalla fine degli anni Ottanta si è abbattuta sulle scuole italiane con la (poco) gentile collaborazione di una politica disattenta e della sciatteria di una classe dirigente sempre sensibile alle politiche giovanili, in sede elettorale, e in realtà affetta da gerontofilia.

TRAMA

Le vicende di un quarta superiore della periferia romana lungo l’anno scolastico fino allo scrutinio sono coreografate dal professor Vivaldi (Silvio Orlando), sensibile e autoironico docente di lettere, dalla seducente Majello (Anna Galiena), professoressa di fisica e matematica, e dal glaciale Speroni (Fabrizio Bentivoglio), austero sostenitore di una scuola edipica e repressiva; il resto del corpo docente, impreparato e cinico, disilluso o vessato, radiografa il silenzioso eroismo e il mediocre vittimismo di una delle categorie sociali più strumentalizzate, vilipese o frettolosamente celebrate, ma mai veramente rispettate, d’Italia: gli insegnanti.

I possibili amori della bellissima Majello, la sospetta gravidanza di un’alunna, le situazioni famigliari (spesso disastrose) di alcuni ragazzi roteano attorno alla figura paterna dell’idealista Vivaldi, contraltare meridionale dell’arrivista Speroni, che sembra aver scambiato la scuola per un ufficio di collocamento, e che incarna il prototipo del professore «in attesa di migliore occupazione», mentre il preside, manifestamente ignorante, liquida ogni iniziativa extra-protocollare con la frase: «non facciamo poesia».

Gli scrutini arriveranno, dopo la festa di pensionamento fantasma di una collega scomparsa (forse) in circostanze misteriose e l’ennesima telefonata-burla che annuncia una bomba nell’edificio e, mentre il giorno declina attraverso le vetrate della palestra, gli studenti attendono la propria sorte soffrendo.

SCUOLA (C’ERA UNA VOLTA LA)

Il soggetto (pronome filmico) è la scuola come spazio fisico in grado di incubare sogni e speranze di professori e studenti; sotto questa lente periferica e impolverata, Luchetti riscatta l’eccesso di macchiette che flirta (troppo) con la classica commedia all’italiana ma senza raggiungere il grottesco come smarginatura d’intelligenza. La scolastica (nell’etimo) colonna sonora è solo un’interruzione del continuo ciangottio che avviene negli ampi corridoi fascisti, cui tutti associamo ansie da interrogazione e torpidi rientri post-prandiali, così come le brutte pareti moderne e i banchi desueti forati all’occhiello dal calamaio sono il rito di passaggio di un’adolescenza trasversale e collettiva che in questi anni di didattica a distanza ha dovuto fare a meno di loro.

Due sono gli spunti veramente interessanti del film: «siamo noi i veri ripetenti», mormora un Bentivoglio esausto dopo aver appreso che la tanto sospirata promozione non arriverà, «noi che ogni anno insegniamo loro le stesse cose», triste manifesto di un immobilismo nemico del dinamismo pedagogico di cui il nostro paese è fiero interprete; la scena in cui Vivaldi dà soltanto la sufficienza al primo della classe, in grado di imparare e ripetere ogni sua frase, segno di una scuola «che funziona solo con chi non ha bisogno di lei».

IL BUCO

In un passaggio cruciale della pellicola crolla il soffitto della biblioteca e sapientemente Luchetti inquadrerà ogni tanto dorsetti o copertine di libri, metastasi di un buco culturale che i tagli alla ricerca e il nascente berlusconismo non faranno che allargare, infilando il dito della tecnocrazia e del collasso a tre «i» (impresa, inglese, informatica) nella lisa asola d’un umanesimo svenduto a bassa macellazione.

Non sembra che oggi tale buco si sia ridotto, nonostante le Lim e la rivoluzione digitale in atto: se è vero che la scuola è una guerra e le aule trincee, chiunque preferirebbe combattere piuttosto che aspettare in eterno la battaglia come il protagonista de «il Deserto dei Tartari» di Buzzati.

Germano Innocenti

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