Cos’è la modernità di un classico (in questo caso di un classico greco) se non la facoltà di aprirsi all’universale attraverso il mito e di donare un linguaggio all’inesprimibile angoscia della contemporaneità? Si potrebbe obiettare che la filosofia, come la poesia, possono ben poco di fronte a problemi come la pandemia, l’ecocidio di cui siamo tutti più o meno responsabili, o il mutamento culturale e antropologico dettato (o meglio sarebbe dire imposto) dalla crescente digitalizzazione.
Ma forse, sul piano epistemologico, non è proprio così, soprattutto se si interpreta la filosofia come un discorso sul Sapere e non del Sapere.
IL SIMPOSIO – In uno dei suoi dialoghi più importanti, che non è un dialogo ma una sorta di disfida oratoria tenuta durante un banchetto, Platone immagina che due amici (Glaucone e Apollodoro) si raccontino, attraverso la testimonianza diretta di Aristodemo, della cena avvenuta qualche anno prima in casa di Agatone per celebrarne la vittoria tragica alle Lenee (416 a.c.); sono presenti la crema degli intellettuali Ateniesi fra cui Pausania, Agatone stesso, Eurissimaco, Aristofane, Fedro, Aristodemo, Alcibiade e ovviamente Socrate.
Il tema di cui si decide di parlare dopo aver desinato è L’Eros, l’Amore, ma prima che ognuno dei filosofi-commediografi-poeti dica la sua su questo inesauribile argomento, abbiamo il primo gancio verso la modernità attraverso un «a parte» goldoniano fra Socrate e Agatone: il primo si è attardato per la cena poiché doveva meditare, così il discepolo gli dice: «O Socrate, vicino a me distenditi, affinché, toccandoti, anch’io possa gioire della sapienza che ti è venuta incontro nel vestibolo», ma l’attempato maestro risponderà: «sarebbe bello Agatone, se la sapienza fosse di tale natura che scorresse dal più pieno al più vuoto di noi solo a toccarci, come l’acqua che in due tazze scorre, attraverso un filo di lana, da quella più piena a quella più vuota».
In queste poche righe c’è già l’architrave della pedagogia moderna e di una didattica orizzontale non più tesa a un mero travaso di nozioni ma a un’educazione che dovrebbe coinvolgere prima e rendere protagonista poi il discente.
PANDEMIA – Quando prende la parola Pausania, dopo l’intervento di Fedro, egli descrive due tipi di amore, la Venere senza madre e figlia di Urano che rappresenta l’amore saggio, lungimirante e fedele, teso più all’elezione dell’anima che alla caducità dei bei corpi, e la Venere più giovane, che volgarmente tende ad amare i corpi delle persone più insulse con una modalità indifferente alla bellezza e non duratura, corruttibile da ricchezze e mire di potere.
Quest’amore malato (riprende poi il medico Eurissimaco), che va contro l’armonia dei contrari che anima sia la medicina che la buona musica ma anche la composizione in versi e l’arte culinaria, e in generale tutte le arti umane, prende a volte il sopravvento sull’Amore sano: «le epidemie in generale provengono da qui e così molte altre malattie diverse agli animali e alle piante; perché ancora brina, grandine e ruggine nascono dall’ammasso incontrollato fra loro di queste inclinazioni amorose».
Ora, questo amore miope e distruttore, che conduce al libertinaggio e alla concupiscenza e, per estensione edonistica, alla distruzione dell’ambiente, ha nome Pandemia, la cui traduzione dal greco suona più o meno come «volgarità». Vi ricorda qualcosa?
OMOTRANSFOBIA – Mentre il ddl Zan slitta a settembre incalzato dagli emendamenti come il marlin de «Il Vecchio e il Mare» dai pesci di piccola taglia, e il dibattito «di genere» s’infiamma più che mai, ha senso rileggere l’intervento di Aristofane ne «Il Simposio».
Il commediografo racconta di come l’umanità inizialmente comprendesse tre sessi: il genere maschile, che discendeva dal sole, quello femminile che discendeva dalla terra e l’androgino che, partecipe di entrambi, derivava dalla luna, anche se di quest’ultimo genere «non è rimasto che il nome che risuona vergogna».
Ogni umano era un tondo rotante provvisto di quattro braccia e di quattro gambe, due volti e via dicendo, dotato di una forza tale e superbia degne di attentare agli dei così, per indebolirli, dominarli e al tempo stesso accrescerli di numero, Giove li tagliò a metà e mise i genitali sul davanti (prima li avevano dietro) in modo che fra uomo e donna avvenisse la riproduzione e fra maschi la sazietà necessaria a indirizzarli verso il lavoro e le altre occupazioni della vita, piuttosto che non alla rivolta verso il loro demiurgo.
«Ognuno di noi è dunque la metà di un umano resecato in mezzo», prosegue Aristofane e «io dico che ecco noi potremmo essere felici solo se […] ciascuno di noi si imbattesse con l’essere gemello, restaurando così l’antica natura».
Dunque, l’Amore puro, la Venere figlia di Urano che non scatena volgarità né disordini, ispira la riconduzione a un’unità primigenia in cui i tre sessi non erano solo in armonia fra loro ma anche dotati di una forza soprannaturale tale da impensierire il divino.
Siamo ben oltre l’inclusione.
SOCRATE – Del discorso finale di Socrate, che giunge a definire il più alto grado d’amore come la contemplazione della bellezza (e giustizia) in sé, ciò che ci interessa, per la sua modernità, sono due aspetti:
- Come lo «studio» sia per lui il continuo rinnovarsi di cognizioni, nell’oblio di quelle appena trascorse, in modo che l’apprendimento risulti sempre giovane e tendente all’immortalità;
- La natura umile dell’amore, figlio di Porio (espediente) e di Penia (povertà), incapace di trattenere le cose che gli sfuggono dalle mani, quindi anche di lasciarsi compenetrare da Verità e Bellezza, cosa che non lo pone per antinomia dalla parte della bruttezza e della menzogna, ma della ricerca, in quanto a differenza degli altri filosofi del Simposio, per Socrate l’Amore non coincide con l’oggetto amato ma con l’amante.
S’inaugura qui il concetto di desiderio come Vuoto di cui tanto ha parlato Lacan, opponendolo al godimento feticista del Capitalismo, un buco che è in realtà una ricchezza perché erode il narcisismo individualista ribaltando la celebre affermazione di Freud: «Dov’era l’Es deve subentrare l’Io», a favore dell’Es, ovvero dell’inconscio desiderante.
Bisogna abdicare a un Io autoritario e perfettamente delimitato e accettare in modo responsabile (ma non padronale) che il desiderio ci attraversi come altro da noi, tensione continua e pulsione mai pienamente soddisfatta; è questo che dovrebbe essere il desiderio di sapere e cioè la bramosia famelica e eternamente anorgasmica della conoscenza che, proprio perché fondata sull’attesa e sulla ricerca, non può limitarsi a una sterile trasmissione d’informazioni, ma a un viaggio.
Nell’era digitale, inastata su un’intelligenza binaria votata al problem solving solo entro un determinato sistema, il Simposio di Platone ci educa al rispetto delle intelligenze divergenti che pensano fuori sistema e rifiutano il feticismo dell’oggetto di consumo, che sempre Lacan raffigurava con l’immagine hitchcockiana della sedia in fiamme lanciata ad alta velocità.
L’algoritmo (o gli algoritmi, visto che ce ne sono di diversi) tagliano il percorso inseguendo (da strumenti, e questo è paradossale) il trionfo del fine sul mezzo, basando la ragione stessa della propria esistenza sulla velocità, di scopo e di elaborazione/intreccio delle informazioni.
Ma tale velocità, che non insegna né innova sul piano qualitativo, è nemica dell’attesa desiderante dell’uomo.
In un bellissimo libro del 2012 (Ritratti del Desiderio, Raffaello Cortina Editore) Recalcati, per descrivere tale dimensione aperta e sospesa del desiderio, racconta un sorprendente passo del «De Bello Gallico» di Giulio Cesare: «i desiderantes [nel De Bello gallico] erano i soldati che aspettavano sotto le stelle i compagni che non erano ancora tornati dal campo di battaglia […] Sidera significa infatti, in latino, stelle. Mentre il de privativo indica l’impossibilità di seguire la rotta segnata dalle stelle.»
Imparare è dunque la continua ricerca della propria stella e non il raggiungimento della stessa; il maestro più indicato non è colui che ci spiega la Via Lattea ma che instaura dentro di noi il desiderio, eternamente e magicamente inevaso, di raggiungerla.