Nato per superfetazione dall’omonimo (e fra i più venduti) disco dei Pink Floyd, che risale al 1979, «The Wall» è una creatura, spesso sottovalutata o fraintesa, del genio di Alan Parker («Angel Heart»; «Le Ceneri di Angela» and so on); se è vero che il soggetto e la sceneggiatura sono di Roger Water è altrettanto vero che la psichedelica idea originale fu stravolta dal regista inglese che realizzò (anche grazie alla cupe immagini di Gerald Scarfe) tutti gli incubi del concept più famoso di sempre.
L’unicità della pellicola, datata 1982, risiede nella sua natura ibrida accentuata dalle distopiche animazioni che la pongono a metà strada fra il videoclip, il documentario e il musical: il pastiche che ne fuoriesce, anche grazie all’intrinseca natura pulsionale, è la perfetta traslazione visuale di un’opera rock anni Settanta.
TRAMA – Il musicista Pink Floyd (Bob Geldof) si chiude in una stanza d’albergo prima di un concerto e mentre lavora alacremente alla propria autodistruzione, arrivando quasi al coma autoindotto, ripercorre attraverso dei flashback (musicali e grafici) il lutto del padre morto in guerra, il difficile rapporto con una madre iperprotettiva e al tempo stesso disinteressata, la sua tormentata relazione sentimentale sfociata in apatia e (reciproci) tradimenti fino al complicato rapporto coi fan e col successo in generale.
Tutti questi fattori, complice una natura ipersensibile e narcisista, hanno contribuito ad erigere un muro che perimetra i sentimenti di Pink impedendogli di vivere in modo autentico i rapporti con gli altri; dallo sconosciuto adulto che si rifiuta di prenderlo per mano in un parco giochi al topo di campagna che cerca di allevare nella rimessa per gli attrezzi, fino al naufragio nel cocktail di alcol e droghe, presago dei deliri autodistruttivi delle icone rock anni Novanta.
Tramite una severa, e a tratti grottesca, autoanalisi il muro dovrà cadere ma questo sarà possibile solo grazie alla consapevolezza che ogni singolo mattone è stato costruito e assemblato da Pink stesso: persino l’arte può acuire una distanza invece di colmarla ma saperlo è già una resurrezione («vuoi mettere risorgere?», ripeteva ossessivamente il Pompeo di Andrea Pazienza).
WE DON’T NEED NO EDUCATION – «The Wall» ha una natura metamorfica (e meta-cinematografica) e questo ne consente un’esegesi infinita ma la critica al sistema scolastico inglese, repressivo e omologante, è di certo una delle chiavi di lettura più evidenti al punto che l’immagine dei bambini dalle maschere in lattice che finiscono nel tritacarne, così come l’infantile coro di «Another Brick in the Wall», sono entrati nella cultura di massa e nell’immaginario Pop con iconica prepotenza.
Il professore burattino che obbliga gli allievi a ripetere ad alta voce una formula geometrica mentre schernisce il piccolo Pink per aver scritto una poesia (che poi è il testo di una canzone dei Pink Floyd) o che grida ai ragazzi: «se non finite la carne non avrete il dolce, come potreste avere il dolce se prima non finite la carne?» è il prodotto d’un pensiero educativo uniformante che piega ogni individualismo, creando (allevando) dei perfetti soldati attraverso un meccanismo premi/punizioni fondato sulla violenza fisica (giova sempre ricordare che in Inghilterra, ai tempi delle riprese del film, erano ancora ammesse le punizioni corporali a scuola).
GERALD SCARFE – Il valore aggiunto della pellicola è l’animazione di Gerald Scarfe che partorisce, o sarebbe meglio dire «incuba», un mutevole pantheon di immagini partendo dalle parole di Waters: la colomba della pace diviene un’aquila nazista e poi una croce sanguinante, due fiori genitali si amano e poi convolvono sbranandosi e mutando in torta, pistola, chitarra, la madre di Pink diviene essa stessa un muro mentre la donna amata, dai capelli in fiamme, si trasforma in uno scorpione e, nel processo vittoriano che il protagonista inscena contro stesso sul finale, le pareti della stanza d’albergo s’ingigantiscono a dismisura inglobando il mondo intero.
Sterminate file di martelli marciano come soldati per abbattere il muro nella profetica visione che anticiperà il crollo del comunismo dell’89, a dimostrazione che l’universale e il particolare flirtano di continuo e che la Storia è spesso il materializzarsi di personalissime ossessioni e irrisolte contraddizioni.
TRASFIGURAZIONE – Come il Travis di «Taxi driver», Geldof si raserà i capelli arrivando al punto di estirparsi a sangue le sopracciglia e, salvato dal proprio agente, salirà sul palco trasfigurato in gerarca nazista: il suo comizio-concerto diviene l’efficace metafora della natura bifronte del Potere e di come ciò che diventiamo agli occhi della gente possa lentamente trascinarci in uno stato di piacevole insensibilità («confortably numb»).
Già i Pink Floyd di «The Dark Side of the Moon» avevano cantato in «Time» di questo stato di ipnotica disperazione tipicamente inglese («hanging on in quiet disperation is the English way») ma grazie al contributo visivo di Alan Parker il messaggio che farà deflagrare il muro è che una totale apertura verso il mondo è possibile solo attraverso una personale discesa all’Inferno, poiché ogni mattone è datato e numerato e siamo stati noi stessi ad assemblarlo con la malta delle nostre illusioni ed autoinganni.
Germano Innocenti