Corro ad anello intorno all’isolato, come da abitudine contratta nel primo lockdown, quando uno strano brusio fora la cortina musicale degli auricolari: un misto fra una prova d’orchestra e un alveare preso a sassate, ci metto un po’ a capire che si tratta dell’ultimo giorno di scuola, ma l’emorragia di ragazzi per le strade e il traffico che coagula attorno all’edificio squadrato sono inequivocabili.
Dal 5 giugno dell’Emilia al 16 giugno della provincia di Bolzano, L’Italia scolare chiude un ciclo fra i più drammatici della propria storia repubblicana, paragonabile (e qualcuno l’ha fatto) al periodo bellico, col digitale che ha puntellato la continuità d’insegnamento con l’elasticità sismica di una capriata di legno, e con tutti i limiti della didattica a distanza.
La pandemia è stata la radiografia di un sistema scolastico deficitario, il lockdown la sua risonanza magnetica; il pesante ritardo del Belpaese rispetto alla maggioranza dei paesi europei, in termini di dotazione (e alfabetizzazione) digitale, il gap fra Settentrione e Meridione, le classi pollaio e i conseguenti rischi di assembramento, il problema dei trasporti e la solitudine dei ragazzi (spesso virata in vera e propria depressione), hanno costretto il sistema-scuola a un tale mutamento strutturale da divenire ontologico.
Mentre serpentine di scooter strombazzanti e bici che impennano vengono vigilate da auto di genitori quattrofrecciate e la gioia compressa troppo a lungo sfocia in un corale gavettone o in urla da stadio, spumanti e fumogeni, in alcune città addirittura in scontri con le forze dell’ordine, ripenso ai due estremi: all’ingegnere bresciano che ha costruito con la stampante 3D la valvola Charlotte necessaria a fornire ossigeno nei reparti d’animazione (o alla geniale trovata del dottore che ha riadattato le maschere subacquee di Decathlon in respiratori), e alla madre che raccontava del figlio intento a eseguire dei piegamenti con le braccia contato dal professore di educazione fisica al pc.
DIGITALIA – Questa è l’Italia, un agglomerato di genialità e cortocircuiti, di eroi e criminali (la cui media non fa mai la normalità), di docenti duttili al cambiamento e di neoluddisti che non vogliono utilizzare strumenti elementari quali la Lim o il registro elettronico, ricordando in questo gli studiosi che si rifiutavano di guardare nel cannocchiale in «Vita di Galileo» di Brecht.
Proprio Galileo invitava a vedere in ogni problema un’opportunità e la solidità, economica e morale, del nostro paese si è rifondata proprio su chi vedeva nelle macerie della Seconda Guerra Mondiale del materiale da recupero; così la nostalgia dei ragazzi per l’ambiente scuola e per la socialità perduta sembra fare della didattica una sorta di palestra antropologica per l’interazione fra digitale e umano, e della scuola quello specchio della comunità di cui parla (e scrive) il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi.
Non serve un ritorno alla normalità ma nuove normalità, nuovi paradigmi con cui affrontare una metamorfosi su scala mondiale che non solo non può risparmiare la scuola ma deve ripartire da lì.
SCENARI FUTURI, ANZI FUTURIBILI – Si può creare un ponte fra le correnti più ispirate della pedagogia e la ludo-didattica? La robotica scolastica può essere un eccellente strumento di inclusione? La giusta strada sembrerebbe essere non il primato della DAD ma del «blended learning» e cioè l’insegnamento misto, in parte in presenza in parte da remoto, ma questo tenendo sempre a mente che lo strumento non deve sostituire il fine e che questo tipo di didattica prevede una preparazione superiore (o differente) rispetto al classico corpus di competenze.
Senza dimenticare che l’elemento docimologico non è stato ancora normato e che «blended learning» non significa insegnamento ibrido ma misto, in quanto la didattica in presenza e quella a distanza non dovrebbero coesistere contemporaneamente, come purtroppo è accaduto dall’inizio della pandemia.
Mi fermo di fronte alla scuola, un vecchio istituto dall’architettura fascista, e ruscellando sudore coi palmi delle mani alle ginocchia, osservo una coppia discutere mentre il figlio, un nanerottolo biondo di 2-3 anni, corre in quel modo buffo, come se non avesse il pieno controllo delle gambe: indossa una salopette di jeans e dei sandali blu con le cuciture e le aperture a fagiolo che non vedevo da vent’anni.
«Lei crede in Dio?» chiedeva un personaggio de «L’Ulisse» di Joyce. «Dio è là fuori», rispondeva l’interpellato indicando una scolaresca durante l’ora di ricreazione.
«Come sa che Dio esiste?» domandava uno dei reietti di Corman McCarthy al reverendo. «Senti i cavalli là fuori?». «Si». «Bene, se non li sentissi te ne accorgeresti».
Chiudo gli occhi ascoltando le meravigliose risa dei ragazzi. Sembra la fine della guerra o l’inizio di qualcosa di grandioso. Se non le sentissi me ne accorgerei. Me ne sono accorto. Per più di un anno.
Germano Innocenti