Il 26 Aprile, se non verranno istituite nuove zone rosse, 8,5 milioni di alunni torneranno a scuola per seguire le attività didattiche in presenza.
Già da un paio di settimane sono ritornati in aula la totalità dei bambini della scuola dell’infanzia, degli alunni della scuola primaria e una parte di quelli della secondaria di primo grado, anticipando le rondini di quell’Aprile la cui crudeltà cantata da Eliot si manifesta attraverso un clima rigido e il persistere pandemico. Lo sdoppiamento delle classi, soprattutto agli istituti superiori, per assicurare il distanziamento, con l’alternanza del 50% in Dad o in presenza, ha solo mascherato il problema del sovraffollamento, partendo dal presupposto che in molti istituti si è supplito alla carenza delle aule riducendo l’orario settimanale o abbreviando le lezioni. Ora che il tanto vaticinato rientro in massa si sta concretizzando, oltre al problema dei trasporti (di cui ci siamo già occupati) e del personale scolastico non ancora vaccinato (fermo al 25% circa, ma con preoccupanti acuti in alcune regioni), la questione delle aule mancanti riemerge pietosamente donando un nuovo senso all’ossimoro tutto italiano “emergenza permanente”.
DISTANZIAMENTO (?) – In molti puntano l’indice contro gli Enti locali preposti, in particolare le amministrazioni provinciali che sono competenti per i locali scolastici degli istituti secondari di secondo grado, colpevoli d’inanità nei mesi di semi-lockdown, altri invece lamentano una carenza normativa sottolineando l’inadeguatezza sia della legge 133 del 2008 che del DPR 81 del 2009. Uno dei punti chiave è che il budget assegnato agli uffici scolastici regionali deve sostenere l’intero sistema quindi, per garantire la presenza scolastica nelle più remote province, affette da anni da un preoccupante crollo demografico, si finisce per forzare i numeri nei grandi poli urbani.
Mentre il Cts sottolinea l’importanza del distanziamento fisico nel rientro a scuola, capillari sono le proteste degli operatori alle prese con aule di 40-50 metri quadri che a volte raggiungono la vertiginosa cifra di 30 studenti, spesso anche con alunni disabili. Rispetto al 2020 le cose sono persino peggiorate poiché della deroga dell’allora Governo in carica che aveva fissato a 23 il numero massimo di alunni per aula non si è più saputo niente.
I parametri (vale la pena ricordarli) sono da un minimo di 18 soggetti a un massimo di 29 nella scuola d’infanzia; da un minimo di 15 a un massimo di 27 alla primaria; da un minimo di 18 a un massimo di 28 alle medie e da un minimo di 27 a un massimo di 30 alle superiori. In caso di gravi disabilità non si possono superare le 20 unità ma nei fatti si forzano spesso.
Altri nodi sono la soppressione delle classi intermedie che non superino le 15 persone (soprattutto alle scuole superiori) e la non concessione di classi aggiuntive. Ad aggravare la già complessa situazione, in termini numerici ovviamente, si aggiunge la non bocciatura dello scorso anno ma, mentre l’appello a classi meno numerose sembra l’unanime coro di presidi e docenti, soprattutto quelli che operano in territori «difficili» e facilmente soggetti alla dispersione scolastica, va sottolineato che le classi pollaio non sono soltanto pericolose per la salute dei discenti ma peggiorano in modo significativo l’offerta formativa ai ragazzi più fragili.
Germano Innocenti