Mondovisione – Elephant di Gus Van Sant

da | Apr 9, 2021 | MONDOVISIONE

Nel 2003, ispirato al celebre (o sarebbe meglio dire nefasto) massacro di Columbine, avvenuto nel 1999 in Colorado, il regista Gus Van Sant fa uscire nelle sale «Elephant», opera di cui cura, oltre alla regia, il soggetto, la sceneggiatura e il montaggio.
Realizzando (in)volontariamente la profezia di uno dei due killer adolescenti che in un nastro preparatorio (oggi lo definiremmo tutorial) vaticinava la trasfigurazione della carneficina in un film, il cineasta appena reduce dalla scelta esistenzialista di «Gerry», con cui ha iniziato la trilogia della morte proseguita poi con «Elephant» e «Last Days», proprio con Elephant sbanca a Cannes convincendo il pubblico e (parte della) critica.

TRAMA – Il film ruota attorno all’episodio culmine che si scatenerà nell’epilogo (e in questo caso non c’è rischio di spoiler) attraverso una sintassi a raggiera con le vite dei protagonisti riprese prima individualmente quindi incrociate col giorno del massacro, riproponendo dialoghi e avvenimenti apparentemente insignificanti ma da diversi punti di vista; un ragazzo che ama la fotografia ne sviluppa alcune in sala audiovisivi, una coppia fantastica sulla serata in divenire, tre amiche bulimiche si danno al gossip mentre una coetanea nerd si reca in biblioteca.
La narrazione a salti, che ricorda un po’ «Pulp Fiction» di Tarantino, è la cifra del linguaggio postmoderno, che rifiuta la linearità in funzione d’una sorta di zapping televisivo incentrato non su diversi canali, ma su diverse prospettive della stessa storia: Elephant, che parafrasa l’espressione «una cosa grande come un elefante ma che tutti fingono di non vedere», è un orologio che non scansiona il tempo ma lo spazio, le cui lancette sono canne di fucile d’un videogame di guerra che si trasforma in incubo reale (seriale).
Lo slow motion del coprotagonista che, mentre gioca con un cane, s’imbatte nei due futuri killer in mimetica e con le borse piene di armi, poco prima di fare ingresso nella scuola che devasteranno, è la linea d’ombra fra il dolore e l’incomunicabilità, fra la lotta che ogni adolescente ingaggia con se stesso e la spersonalizzazione.

STILE – Tranne gli assassini, che vengono sempre inquadrati frontalmente, la maggior parte degli attori è ripresa di spalle trasformando lo spettatore in un occhio assoluto che sopraintende allo svolgimento della trama, sospendendo ogni giudizio.
Lunghi piani sequenza in corridoi iper-illuminati, e in un certo senso desolati, una colonna sonora in cui Beethoven non amplifica la violenza, come avveniva per i drughi di Kubrick in Arancia Meccanica, ma la nasconde dietro una veste istituzionale, una Natura immobile e distante, e il mondo degli adulti che come spesso avviene nei film di Van Sant, è assente o inadeguato, tutto questo trasforma la scuola, già di per sé un contenitore intergenerazionale di conflitti (non solo ormonali), in una bomba pronta a deflagrare.
Non deflagreranno quelle piazzate dai due giovani criminali invece che, fedelmente all’Hitler ammirato nei documentari, avevano preventivato una strage ben peggiore, ma questo non sminuisce la fredda determinazione a uccidere, scandita dai suoni secchi di armi che non sbattono le palpebre.

«UN GIORNO BRUTTO E BELLO COME QUESTO NON L’AVEVO MAI VISTO» – La citazione dal Macbeth di Shakespeare, che sottolineava una vittoria con un alto numero di caduti, qui simboleggia il nichilismo d’una strage che non prevede(va) né catarsi né approfondimento psicologico.
Sono passati molti anni dall’uscita nelle sale di Elephant e alcuni critici oggi ne rimproverano gli stereotipi e l’ingenuità eppure lo stile documentaristico e il minimalismo, più letterario che cinematografico, riescono meglio d’una sceneggiatura serrata a incorniciare il vero protagonista di Portland/Columbine: il Vuoto.
L’omosessualità, inizialmente banalizzata da un gruppo di ricerca sulle minoranze, e poi sdoganata in un passaggio del film con naturalezza a-critica, è la perfetta sintesi, da parte d’un regista omosessuale che dell’omosessualità si è occupato spesso e mai in modo retorico, d’una superficialità solo in parte reificata dal troppo facile accesso alle armi della società americana.
Dietro Elephant, e dietro Columbine, si celano i buchi di un sistema (scolastico e famigliare) in bilico fra l’eccessiva libertà e il perbenismo borghese, un paese la cui vastità amplifica la solitudine di ragazzi per cui tutto è accessibile e perfettamente inutile, vacuo e insignificante.
Di fronte a questa anestesia totale, che non si ferma al corpo ma infetta anche l’anima, la violenza verso se stessi o gli altri resta l’unico linguaggio in grado di rappresentare il Vuoto, illudendosi di batterlo.

Germano Innocenti

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