Dopo aver evidenziato la sperequazione digitale tra regione e regione, città e città o persino fra istituti della stessa città, ed esserci soffermati sulle difficoltà incontrate dagli insegnanti nell’armonizzare l’unicità della relazione e del rapporto tra docente e discente con la rivoluzione introdotta dalla Dad, chiediamo a Samantha Viva, insegnante d’una scuola secondaria di primo grado del cuneese, di fare un bilancio su quest’ultimo anno.
Samantha, tiriamo le somme di questo complicato anno.
Ci sono troppe differenze. Ogni scuola può usare gli strumenti di cui dispone, noi ci siamo anche dotati di un regolamento, per cui i ragazzi possono portare i propri device, tablet e pc, ma non lo smartphone. Ma poi dipende tutto dalla connessione. Io inviterei chi dice “la Dad funziona” a provare: noi ci siamo posti l’iniziale obiettivo di mantenere il contatto visivo coi ragazzi e grazie a molti sacrifici ci siamo riusciti, nonostante i problemi di connessione o studenti che fingono di essere frizzati o che giocano di nascosto ai videogame traditi dai riflessi sugli occhiali. Però alla lunga è difficile puntare solo sulla didattica e tralasciare le relazioni e il rapporto tra pari, che in una stanza, da soli, non può avvenire.
Ci saranno stati dei lati positivi nella Dad.
Sicuramente. Abbiamo migliorato insieme e la scuola continua, ci siamo reinventati come docenti e gli alunni sono diventati un po’ più adulti, per non parlare dei miglioramenti in termini di competenza digitale. Inoltre abbiamo realizzato dei progetti, che ci hanno ad esempio avvicinato alle missioni Onu e ai militari che sono all’estero, e gli studenti hanno potuto incontrare on line lo scrittore su cui abbiamo fatto delle lezioni, cosa impensabile prima della Dad.
E i lati negativi?
Oltre all’isolamento e alla mancanza d’interazione fisica, che sono intuitivi, è venuta meno l’empatia e i ragazzi sono più fragili. Prima se avevano un problema si fermavano dopo la lezione e li ascoltavo, ora mi scrivono interminabili mail di sfogo. Sul piano sociale molti di loro avevano solo la scuola, ora nemmeno quella. Io penso che la digitalizzazione debba avvenire e avverrà, al di là della pandemia, ma penso anche che in Italia dobbiamo smetterla di coprire i problemi con altri problemi. Quando ho iniziato a insegnare pensavo, sbagliando, che fosse il docente a imporre il suo metodo d’insegnamento e che gli alunni dovessero adattarsi, adesso (e in particolare con la Dad) ho capito che è l’esatto contrario.
Come gestisci il problema del copiare? Sta nascendo una vera e propria letteratura on line su come farlo e su come evitarlo, una sorta di spionaggio e controspionaggio a suon di tutorial e trucchi più o meno smaliziati. Un’insegnante precedentemente intervistata ha risolto la questione bandendo le prove scritte.
Dipende anche dal tipo di periodo in cui ti ritrovi la classe in Dad, perché i ragazzi devono scrivere. Io faccio delle verifiche a tempo, controllando che tengano il libro lontano e mettendo più domande aperte, ma ogni collega ha il suo metodo. Più in generale penso che alle scuole primarie, o alle medie dove insegno io, sia più facile scoprire un plagio o una copiatura perché i ragazzi sono meno furbi e hanno meno risorse, ma il modo migliore per ovviare a tutto questo è conoscere i propri studenti.
E i genitori?
Sono più consapevoli del lavoro fatto sia dagli insegnanti che dai figli: grazie alle notifiche c’è maggiore trasparenza rispetto a prima. Però si lamentano perché i figli stanno studiando il triplo, e di conseguenza si oppongono al tenere le scuole aperte anche d’estate.
Siamo giunti alla fine della nostra intervista. Lascio a te le conclusioni.
Mi soffermerò sul lato adulto della cattedra. Oggi la scuola è tenuta in piedi da moltissimi precari, che devono continuamente dimostrare di essere all’altezza e spesso non possono garantire la continuità didattica, perché la scelta annuale dipende da graduatorie e continui spostamenti. L’iter per insegnare è lungo e negli ultimi anni, la mancanza di concorsi ha penalizzato tanti di noi, anche l’ultimo concorso straordinario non è stato così attento a sanare situazioni conclamate di anni di precariato. Gli stipendi dovrebbero essere adeguati alle media europea, mentre in Italia abbiamo dei salari che non tengono conto del carico di lavoro, soprattutto in questa fase in cui la didattica digitale lo ha più che raddoppiato (nei casi in cui è stata fatta bene).
L’insegnante deve sapere cosa c’è oltre questo «fantastico cortile» perché il mondo si riversa in una classe e le parole «integrazione» e «uguaglianza» si fondano proprio sulla sua conoscenza. L’empatia conta molto di più del livello di conoscenza trasmesso, quindi bisogna costantemente aggiornarsi anche su metodologie e pedagogia.
Io reclamo inoltre il «diritto di disconnessione», perché non posso essere disponibile 24/h per studenti, segreteria e mail di ogni tipo. Sul discorso economico aggiungo che uno stipendio adeguato al ruolo, non è solo uno strumento di maggiore giustizia sociale, ma anche di prestigio: nessuno si permetterebbe mai di contraddire un docente universitario mentre a noi capita di continuo, e purtroppo questo dipende anche dal peso sociale che abbiamo, oltre che dai continui attacchi immotivati alla nostra categoria.
Germano Innocenti